Trentatré terzine

Un piccolo contributo al Dantedì, sperando che Alighieri sia distratto

Dicean gli esperti fosse proprio oggi
il giorno che trovossi in selva oscura
colui che influenzò senz’esser Moggi

arbìtrio, pena, sorte e ogni fattura
di quei che si macchiaron, maledetti,
di colpe che non passan da questura.

Seppur gli anniversari mi stan stretti
sento l’impulso a scrivere in terzine
anche se il risultato son versetti

con intenzioni, giuro, genuine
che appariran tributo un po’ funesto
più che dantesche allegorie divine.

Di Dante io mi sono sempre chiesto
com’è che d’ogni epoca recente
parea comunque sempre manifesto,

che le sue rime restan nella mente
e sembrano parlare dal trecento
di una realtà che poi, sinceramente,

non è così lontana che la sento.
Oggi viviamo un tempo orizzontale,
in cui qualsiasi sia lo ardimento

che quotidianamente molti assale
ci siam convinti non sia mai esistito
né tantomeno essere ancestrale.

Ma la realtà, ahimè, è in culo un dito
i social niente si sono inventati
neppure il mio linguaggio colorito:

andiamo, di virtual scrinsciotti armati
con impeto a tuittare l’ignoranza
di chi torto ci fece in dì passati

come Dante facea con eleganza
setcento anni orson, badate bene
e senza degli asctagghi l’abbondanza.

L’inferno egli sognò con fiamme e pene
Per quegli che le norme avean violato
D’un codice moral ch’egli detiene

Arcaico Zuckerbergo, ma più amato
gironi e malebolge inventossi
per chi sui suoi attributi era stato.

Del volgo fiorentino rubò i glossi
per raccontare a tutti la tortura
spettante pure a te, chicché tu fossi.

Se un torto gli facesti per sventura
di Sgarbico tenor sono gli insulti
e eterna e ininterrotta la iattura.

Non son previsti mai bonari indulti
e non v’è prescrizion laggiù che tenga
infatti non c’è Santanchè che esulti

Eppur secoli dopo come avvenga
che i versi di quel guelfo siano i nostri
non v’è motivazion che mi sovvenga

se non che nell’umano vedea mostri
che forse non son poi cambiati tanto
ad oggi che di bit facciamo inchiostri.

D’un cor sapremo anche far trapianto
vogliam colonizzar perfino marte
eppure mi sovviene in controcanto:

“non v’è tecnologia che valga l’arte
di leggere l’umano così a fondo
che passano i Voltaire, i Bonaparte

ma Dante resta lì, e non è sfondo
perché non siamo poi tanto evoluti
se ancora ci son guerre per lo mondo”.

A quante pesti siam sopravvissuti
dai tempi di Alighieri e di Boccaccio?
Eppur quando finiti son gli aiuti

con l’orticello pieno e qualche straccio
torniamo dentro, cul sui nostri troni
per sostener fascisti o il prim capaccio

a darci il cinque a crederci più buoni,
a chiedere conferme nella bolla
che siano sempre gli altri a esser coglioni.

Se poi però, d’emblée, il castello crolla
così ancorati come siamo all’Ego
dobbiam cercare colpe nella folla:

diciamo “lo so io, ora vi spiego”
e via con parabolici teoremi
in cerca di uno squallido ripiego

si lanciano se serve anche anatemi
passiamo pure il Papa alla garrota
per raccattare like da quattro scemi

o solo per provar l’aria di quota
per un secondo un attimo un istante
e non sentirci ancor l’ultima ruota

del fascinoso carro itinerante
che ci ha corrotti più di Bonifazio
con l’illusion di essere importante.

In questo goffo e strano ciberspazio
dove orwellianamente siam giganti
con giogo e paraocchi come Orazio

urliamo nella bolgia, e siamo tanti
“Guardatemi, son qui, ne sono degno!”
di cosa poi, lo sanno solo i santi.

Per questo siam disposti a pagar pegno
di una celebrità da coccinelle
per il goder d’un pollicioso segno

Ma al fin di sto quintale di favelle
Un poco di speranza (non Roberto):
Ci son, basta guardarle, ancor le stelle.

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