Il piccolo ministro e la scuola

Una fiaba sonora di identità inventate e regnanti incapaci

A mille ce n’è
nel mio cuore di fiabe da narrar.
Venite con me
nel mio mondo fatato per sognar…
Non serve l’ombrello,
il cappottino rosso o la cartella bella
per venire con me…
Basta un po’ di fantasia e di bontà.

C’era una volta, in un piccolo lembo di terra bagnato da tre mari (per davvero, non come l’Abruzzo), un regno che era stato per secoli, forse millenni, uno dei più belli del mondo, e che al mondo aveva insegnato tantissimo già dai tempi in cui sulle albioniche sponde ancora si correva nudi a caccia di marmotte, mentre nel regno già si accoltellava un Giulio Cesare. Era stato regno di prosperità, arte e progresso, meta di viaggi ed esperienze da ogni angolo del mondo, terra fertile che ogni contaminazione assorbiva e che altrettante ne esportava. Narrava una leggenda che, dopo tutti quei secoli di contaminazione a doppio senso, esistesse una piccolissima traccia di quel portentoso regno anche nel più sperduto e isolato dei villaggi, come per il patrimonio genetico di Gengis Khan.

In quel regno tanto grande viveva un piccolo ministro. Certo, non era stato sempre ministro, ma la nostra storia inizia quando la regina di allora – che per strambe ragioni voleva essere chiamata “il re” – gli diede un incarico importante, forse il più importante di tutti in ogni regno che si rispetti. In una lugubre giornata di ottobre, il piccolo ministro e altri come lui vennero convocati a palazzo per ricevere la propria investitura, ed erano gioviali e festanti: c’era il paffuto con gli occhiali che leggeva poco e non conosceva la geografia, a cui spettò il ministero alla cultura, l’esperto di elenchi e salsicce a cui affidarono i trasporti, il cognato dallo sguardo magnetico che si incaricò dell’agricoltura (destando invidia nel salsicciaio, che aveva da sempre una passione per i trattori) e poi la siliconica truffatrice del Twiga a cui affidarono il turismo e tanti, tanti altri ancora, fino al nostro piccolo protagonista, che diventò ministro dell’istruzione.

Dovete sapere, però, che la regina e i suoi consiglieri avevano dell’istruzione (e di molti argomenti) una strana concezione: tutto ciò che non rientrava nelle loro personali convinzioni – fossero esse sensate oppure no – doveva essere bandito da ogni angolo del regno, condannato, vietato e, dove necessario, represso con i più subdoli mezzi. Sotto il comando della nuova regina, quel regno che nei secoli era stato teatro di grande apertura stava di nuovo per chiudersi su sé stesso, come era accaduto con un altro re pochi decenni prima; un re che aveva portato guerra e distruzione, repressione e tirannia, ma di cui ancora si diceva “però ha bonificato le paludi” e tanto bastava ai più stolti per ignorare il resto o, peggio, per giustificarlo.

Al nostro protagonista spettò quindi il compito di reprimere – perché di questo si trattava in fondo – tutto ciò che nelle scuole rappresentava altro dai dogmi della regina. Laddove ci fosse una scuola che promuoveva integrazione e tolleranza, magari con un giorno di chiusura per una festività di un’altra religione, il ministro prontamente interveniva redarguendo la scuola e minacciando fantomatiche verifiche di mafiosa fattura; ovunque le associazioni di partigiani si offrissero per testimoniare agli studenti le colpe orribili del vecchio re delle paludi, il ministro diffidava e annullava gli accordi con quelle associazioni; dove, addirittura, succedeva che studenti più grandi esprimessero le proprie opinioni e osassero criticare la regina, il ministro mandava la polizia e proponeva l’umiliazione pubblica, la bocciatura preventiva, finanche i lavori forzati. Insomma, si dava da fare.

Era davvero portato per quel compito che la regina gli aveva affidato, ma le semplici punizioni e le reprimende non gli bastavano, perché il piccolo ministro aveva un’ossessione: gli stranieri.

Sembra strano a dirsi per un regno come quello, la cui storica ricchezza fu proprio nell’assecondarsi di popoli, dominazioni e le più svariate scorribande, ma nella mente del piccolo ministro quelle erano menzogne messe in giro dai perfidi comunisti che volevano cancellare l’identità del regno. Quale fosse questa identità, però, non era dato sapere, e più si sforzassero di definirla (addirittura con l’aiuto di prodi cavalieri di ventura con idee bislacche e una strana ossessione per le tute mimetiche) più appariva chiaro che il “pericolo straniero” altro non era che uno spauracchio sventolato per indirizzare altrove l’odio dei più stupidi e dei disperati, sperando non si accorgessero delle responsabilità della regina e di tutto il suo palazzo nella carestia che procedeva in ogni dove a passo spedito.

Capitava ormai sempre più spesso di sentire discorsi contro gli stranieri nelle piazze e nelle locande, e molti cittadini che fino a quel momento erano stati considerati (a giusta misura) gli scemi del villaggio, d’un tratto si sentirono giustificati nel pronunciare pubblicamente le loro strambe teorie, riesumare beceri slogan ormai vetusti e rivendicare un’identità del regno che nulla aveva a che vedere con la realtà o con la storia. Erano gli stessi, si capisce, che applaudirono fino a consumarsi le mani quando il piccolo ministro (a ruota del ministro delle salsicce) gridò alla minaccia saladina per una scuola che decise di chiudere per permettere a molti studenti, quasi la metà ad essere precisi, di celebrare una festa che il piccolo ministro non considerava tale, dato che riguardava una religione a lui estranea.

Come avevano osato, quegli insegnanti e dirigenti, compiere per gli empi saladini settenni ciò che per i settenni crociati avveniva più volte l’anno? Il piccolo ministro si lanciò immediatamente alla pugna, scortato da un esercito di scemi del villaggio e adoratori dei grassi saturi: partirono minacce di controlli, reprimende pubbliche e lunghissimi discorsi sull’identità del regno sotto l’attacco di chi voleva cancellarla a suon di giorni di ferie e carne speziata. Seguì un delirante proclama sul limitare gli stranieri nelle classi, colpevoli di rallentare l’apprendimento degli studenti autoctoni; proclama scritto – sarà che il senso del ridicolo non faceva parte dell’identità tanto paventata dal piccolo ministro – con una grammatica stentata e una punteggiatura da fare invidia a Timothy Dexter.

Quel discorso diventò una barzelletta nel regno, e lo diventò ancor di più quando il piccolo ministro, incapace per natura di arretrare e ammettere anche i più palesi strafalcioni, pensò bene di rincarare la dose dando la colpa alla dettatura frettolosa, poi alla malafede dei popolani che lo irridevano, poi al clima di odio, poi a Satana e infine negando tutto cercando in modo ridicolo di spiegare che in realtà nel suo annuncio non c’era nessun errore. Mentre il piccolo ministro analfabeta si inoltrava in un ginepraio di scuse infantili e drammi schizofrenici, la scuola in questione confermò la sua scelta, e a nulla servirono le prese di posizioni di senatori con voce roca e passione per i busti in pietra, e neppure le pirotecniche leccate di terga a suon d’inchiostro dei diaristi di regime, che insistevano nel vergare invettive contro il pericolo straniero sulle loro pergamene a tre strati di morbidezza.

Perfino i sacerdoti, quelli della religione tanto cara al ministro e che lui stesso diceva di voler difendere, si schierarono dalla parte della scuola, come qualunque persona di buon senso avrebbe fatto, ma per il ministro e la regina (pardon, il Re) quel boccone amaro era difficile da digerire, tanto più quando perfino il Grande Imperatore si disse favorevole a quello che era un gesto nobile, di quei gesti nobili che proprio a scuola andrebbero insegnati. Nei giorni successivi altri villaggi si unirono al gesto pacifico di quella scuola, chi con un messaggio di sostegno, chi con iniziative simili: in uno dei villaggi vicini, l’oratorio mise a disposizione i suoi spazi agli amici di diversa religione per le loro celebrazioni, e questo causò ulteriori deliri, in particolar modo degli adepti del ministro degli insaccati i quali, ahiloro, non poterono fare altro che strapparsi i capelli e urlare a uno scandalo che chiunque non facesse colazione con la grappa trovava ovviamente ridicolo.

Si parlò per giorni e giorni di questo inesistente scandalo fino nei più remoti villaggi del regno, ma poi tutto venne dimenticato come ogni altro simile scandalo su cui, dalla regina in giù, l’intero governo sbraitava senza costrutto, aizzando folle di idioti nella speranza di intorbidire le acque, che del resto era l’unica cosa di cui quella specie di gruppo sconclusionato di crociati schizofrenici poteva vantare valide competenze. Nessun’altra freccia avevano ai loro archi se non quella del caos e del bisticcio, del disprezzo degli altri e di una fantomatica “identità” che esisteva soltanto nelle loro piccole, addormentate, livorose menti.

Ora che la nostra storia volge al termine, con gli studenti a casa e i ministri a mangiarsi il fegato, un dettaglio essenziale va spiegato a voi amici lettori: in una storia di scuola, studenti e bambini, si è parlato solo di ciò che interessava agli adulti, di ciò che turbava gli adulti, di nemici immaginari degli adulti e di fantomatiche identità degli adulti. Lo stesso sottoscritto narratore si è dilungato inspiegabilmente per raccontare ciò di cui un bambino direbbe soltanto “i grandi sono stupidi” per poi correre a giocare a pallone con bambini di colori che poi, a guardar bene, neppure esistono.

Perché a scuola si è tutti stranieri e nessuno lo è, si è di tutti i colori e di nessuno, di tutte le identità e di nessuna. La scuola, e quel regno lo aveva appena dimostrato, è e sarà sempre più forte di chi la vuole soggiogare, che si tratti di un piccolo ministro analfabeta o di una bionda regina con dubbi perfino sul proprio appellativo, di adoratori delle griglie e divoratori di marmotte, perfino del Re delle paludi e degli scemi del villaggio che in suo onore organizzavano pacchiane celebrazioni.

Come ogni fiaba che si rispetti, anche la nostra ha un lieto fine: il piccolo ministro, la regina e tutti gli altri restarono al loro posto ancora per un po’ ma, per quanto affilassero le unghie per restare attaccati agli schienali di velluto, finirono per sparire insieme alle loro strambe idee, all’acqua torbida e all’odio che prima o poi stanca. Sparirono (spariranno) accompagnati alla porta dalla storia del regno e dall’unico vero slancio d’identità di quel meraviglioso lembo di terra tra i tre mari: vedere la diversità come una ricchezza, e chi la nega come scialbo intrattenimento per stolti destinato inesorabilmente all’oblio.

E vissero tutti scolarizzati e contenti.

Finisce così
Questa favola breve se ne va
Il disco fa click
E, vedrete, fra un po’ si fermerà,
ma aspettate, e un altro ne avrete
“C’era una volta” il Cantafiabe dirà
E un’altra favola comincerà

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