
DISCLAIMER: Quello che state per leggere è un racconto di vergogne indicibili, frasi fatte e frecciate gratuite. È un racconto che parla di me per parlare di voi; o viceversa, ora non ricordo. È soprattutto un'ammissione di colpa travestita da puntiglio intellettuale, come peraltro tutto ciò che trovate scritto su queste pagine.
Ah, cara vecchia musica! Compagna fedele di mille avventure e altrettante paranoie, di periodi maniacali, ascolti ossessivamente ricercati, mode passeggere, fanatismi radicati e tanta, tantissima supponenza. Lo ammetto: sono stato uno snob musicale. Lo sono stato per molti anni e con fasi progressivamente sempre più estreme, tanto sui generi quanto sulla prosopopea intellettualoide. Lo sono stato nell’accezione più intensa possibile, dato che per un paio di decenni la musica è stata passione ma anche leva per esperienze di giornalismo e radiofonia; modeste, per carità, ma abbastanza felici da attribuirmi l’etichetta di addetto ai lavori. Insomma, sono stato Barry, Dick e Rob Gordon tutti insieme: uno stronzo spocchioso che disprezza le masse plebee incapaci di distinguere un accordo aperto da una tromba chiusa, e di cogliere la distanza abissale tra Mellon Collie e Honey’s Dead.
Non che adesso ne sia uscito del tutto – nessuno si libera mai del riflesso condizionato di urlare “cos’è ‘sta merda?” quando dalle autoradio altrui esce musica neomelodica – ma con il tempo i miei gusti musicali hanno smesso di essere dipendenti dal culto fondamentalista del mio walkman del ’96, o delle tavole della legge che Robert Johnson ha ricevuto lì dove il Mississippi incontra il Sinai. Non ho improvvisamente rivalutato i Gazosa, né rinnego gli anni di militanza punk-rock-psych-industrial-metallara; sono solo riuscito a scindere fede e religione, tenermi stretta la prima e lasciare che la seconda andasse perduta nel tempo come Bacardi Breezer nella pioggia.
È con questo percorso bene in testa che oggi mi approccio, scompisciandomi dalle risate come solo chi sa di essere stato quella roba lì, agli anatemi social di gente della mia età – e anche qualcosa di più – ogni volta che sale agli onori della cronaca un qualche artista pop colpevole di esistere, e perciò macchiatosi del gravissimo reato di lesa maestà dei nostri poster in cameretta. Negli ultimi giorni, complici le sbornie di halloween e il weekend lungo, due in particolare sono stati i nomi che hanno indispettito gli ormoni dimenticati di gente ormai abituata al Cialis.
Il primo è quello di Vasco Rossi, e va detto che sbertucciare il rocker di Zocca (qui è dove urlate “Rocker?? E allora i Led Zeppelin??”) è per lo snobista musicale ciò che per un autore comico è far battute su Salvini: un esercizio di stile provato migliaia di volte in allenamento; in questo caso, però, l’aneddoto non nasce da un nuovo singolo del Blasco, ma da un post Instagram in cui ha voluto ricordare suo padre, il periodo di detenzione nei lager e la lotta antifascista. Il post si chiude con (riassumo): “Non ci crederai babbo, son tornati i fascisti”.
Giacché l’evoluzione biologica forse è darwiniana, ma quella comportamentale è di certo pavloviana, l’intero comparto della destra si è sentito preso in causa, tra ministri che muovevano roboanti accuse di “falsità sul governo”(??), Cruciani che chiede “Vasco, ma che ti è preso?” e altre brillanti salivazioni post-campanella. Il bello è arrivato poi con la bassa manovalanza dei social: da un lato plotoni di suoi fan con simpatie mussoliniane, imbizzarriti all’idea che Vasco possa schifare dichiaratamente il fascismo, e dall’altra la schiera di quelli che al solo sentirlo nominare hanno l’urgenza di gridare “io negli anni ’80 ascoltavo i Violent Femmes e i Minor Threat, voi che cazzo ne sapete??”. Seppur generalmente viaggino su binari separati, ho visto entrambi gli schieramenti – con l’aggiunta degli immancabili novax, orfani inconsolabili del proprio Zenit – unire le forze sotto un mio tweet, e devo dire che è stata un esperienza mistica per certi versi simile a quella coi fan di Borghi.
Nel tweet sottolineavo un’ovvietà: per stupirsi di un Vasco antifascista bisogna non aver mai capito nulla né di lui né delle sue canzoni. Per le successive 48 ore (e ancora continuano, rivoglio le polemiche da un quarto d’ora, subito!) i commenti dei fasci immusoniti e dei puristi del wah wah si sono intersecati alla perfezione: tra un “basta comunisti che si appropriano della musica!” e un “ah, c’era pure qualcosa da capire?”, le due truppe cammellate hanno velocemente serrato le fila su un mantra comunitario: “Vasco chi? Quello che cantava del negro e la troia?”.
Devo dire che i fascisti scontenti di uno che dice “negro” e “troia” mi hanno un po’ deluso, e per questo non ne parlerò oltre, ma teniamo in standby i puristi e passiamo al secondo nome su cui sono saltati gli schemi: gli 883. La nuova serie TV di Sky dedicata al duo Pezzali-Repetto è un successo, e naturalmente ciò è insopportabile per il purista alternativo (In realtà è vitale: lo snobismo dipende esclusivamente dai consumi di massa e dal pomposo rifiuto di essi. Potete prendere una rivista di musica alternativa a caso e leggere una recensione del secondo album di chiunque per averne la prova, ma non sono qui per dire che ho sprecato anni della mia vita a pregare sugli articoli di Ondarock).
Per i puristi è inaccetabile – diciamo così – che la gente guardi una serie sugli 883, in particolare per un paio di essi che, forse dopo un’indigestione di carrube, aprono Twitter sospinti dalle legioni dei propri simili e scrivono (ricopio):
- Io negli anni 90 c’ero. Di musica bella ce ne era tantissima. Gli 883 non erano manco calcolati. Non so quando è avvenuta sta beatificazione e perché
- Negli anni dei Nirvana e di Björk dire che ti piacevano gli 883 era una condanna a morte sociale. Li ascoltavano solo i dodicenni anagrafici e mentali. Poi è successo quello che è successo con gli ABBA e altri ex impresentabili.
Vorrei soffermarmi anche sul primo dei due, perché l’idea che nessuno ascoltasse gli 883 nell’unico decennio in cui sono esistiti – con 5 album su 6 al primo e il rimanente al secondo posto delle classifiche di vendita – meriterebbe uno studio clinico, ma qui rischiamo di fare notte. Inoltre è il secondo che sintetizza il lato ridicolo dello snobismo musicale ed erige un ponte tra gli antivaschisti e gli antipezzalisti del Twitter (o comunque si chiami ora).
È nel suo tweet che rivedo il baldanzoso Rob Gordon, con la sicumera a mille e le cuffie spugnose, intento a fare compilation cervellotiche mentre si guarda indietro e si dice che, là fuori, quella robaccia mainstream la ascoltavano solo i ragazzini e gli stupidi; diamine, erano “gli anni dei Nirvana e di Björk”, se dicevi che ti piacevano gli 883 era una “condanna a morte sociale”. È in lui che rivedo il cinquantenne che alla domanda “Scusate, ma davvero credevate che Vasco fosse fascista?” ha sentito il bisogno di rispondere linkandomi un video di Hendrix e definendo Vasco “quel drogato”, evidentemente non ricordando di quali sostanze fosse imbevuta la bandana di Hendrix nel video.
Penso al bisogno di citare i Nirvana per darsi un tono, e immagino cosa avrebbero da dire i Melvins (sì, sono ancora io, Rob “spocchia” Gordon, sono passato solo per dirvi che i Nirvana erano gli 883 del grunge, fatevene una ragione); leggo l’aggiunta di Björk come stratagemma per sfuggire al cliché dei chitarroni evocato col fantasma di Cobain e penso a quando, l’anno scorso, al concerto di Björk al Forum ci sono andato con la maglietta degli Iron Maiden apposta, per vedere gli sguardi inorriditi e ridere sotto i baffi; penso al tizio del video di Hendrix e mi tornano alla mente quelli che assicurano di esserci stati quel giorno del ’68 al Piper: migliaia di testimonianze giurate per un concerto in un locale da 200 posti; penso ai cinquantenni che fanno a gara per chi è più puro e ricordo il quasi sessantenne che conosco io, appassionato, ascoltatore navigato con gusti raffinatissimi, e ricordo quella volta in cui con la vergogna tra i denti ammise una passione giovanile per le canzoni di Amanda Lear, sentendosi poi in obbligo di sottolineare che comunque è stata musa di Dalì, mica una Heather Parisi qualsiasi.
Ci penso e rido sguaiatamente, ma non di loro; rido sguaiatamente di me, che sono stato quelle stesse cose per tanto di quel tempo che riderne è l’unica cosa che posso fare. L’unica sensata. L’unica adulta. Perché in fondo cos’è lo snobismo se non il desiderio di dire “beato te che non capisci un cazzo” al compagno di classe che va in discoteca invece di seguirti nel pogo della cover band dei Ramones? Cos’è, se non un fascismo soft che bastona il cattivo gusto delle boy band in nome del Duce Bianco? Chi è lo snobista musicale se non un adolescente rimasto tale nelle proprie convinzioni, che fugge ossessivamente dall’età adulta, e nonostante un mutuo e un evidente calo della libido teme ancora gli stigmi sociali per le cassettine nello stereo?
Non fraintendetemi, amici snob, sono stato della vostra squadra e non lo rinnego; vi capisco e vengo in pace. Sono qui per dare un messaggio di speranza a tutti voi: le masse non capiscono la vostra grandezza e quella della vostra selezionata collezione di vinili, non la capiranno mai, ed è uno spasso farglielo notare mentre annaspano di fronte a nomi che non hanno mai sentito, ma non avete idea di quante risate vi stiate perdendo per la fissa di non togliervi la camicia nera di flanella e l’aria seriosa da John Cusack con lo scheletro di Amanda Lear nell’armadio.






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