Alla moda di Amburgo

Le polpette di broccoli e gli effetti del rifiuto dell’alfabetismo sugli album dei rapper

L’Europa ha deciso: per molti prodotti di origine vegetale non sarà più possibile utilizzare denominazioni che richiamino a prodotti di origine animale, per tutelare il consumatore dal marketing ingannevole. Insomma, per usare la sintesi di un ex comico ormai abbruttito: “quello di soia non è latte perché la soia non ha le tette”. In realtà questa faccenda del latte di soia che si deve chiamare bevanda alla soia era già stata decisa, ma in questi giorni si è aggiunta all’elenco delle espressioni proibite, tra le altre, anche “burger vegetale”.

E cosa ce ne frega, direte giustamente voi, di come andrebbe chiamiato un impasto di verdure compresse? Sono queste le priorità dell’Europa in un momento tanto delicato? La decisione segna la fine del veganismo al potere? È tutta una scusa per mettere in ombra il fallito tentativo della Turchia di far riconoscere il kebab come piatto tradizionale dell’Unione Europea? Quale sarà la nuova denominazione per i burger? Dischi che fanno andare in bagno? E se sì, poi come chiamiamo gli album di Geolier?

Tutte domande legittime alle quali non ho alcuna intenzione di rispondere, perché il punto interessante della questione è un altro. Il punto interessante è che, se con le varie alternative al latte il divieto lessicale risponde a una questione di oggettività – e soprattutto di tette, non dimentichiamo le tette – con la parola “burger” questa oggettività sparisce del tutto, per dare spazio a quella che potremmo definire post-oggettività.

Tranquilli, non è una lezione di materialismo dialettico; è il solito giro di parole inutili per concludere che siamo una massa di imbecilli. Comunque, il fatto è che “burger” è la contrazione di “hamburger”, che non ha assolutamente a che fare con la carne: hamburger significa soltanto “di Amburgo”. Quella specie di blocco di faesite che oggi McDonald’s infila nei suoi panini, altro non è che la “hamburger steak”, bistecca di Amburgo, che 150 anni fa spopolava al porto della città tedesca. Non identifica la natura animale, ma soltanto il luogo d’origine dell’idea di dare forma tonda a una poltiglia. Vietare “burger vegetale” è come vietare “cotoletta alla milanese” con la motivazione che di milanese c’è già l’ossobuco, e il povero consumatore si vede recapitare della carne impanata mentre già pregustava il midollo.

Cosa abbiamo imparato da tutto ciò? Che il consumatore è l’anello di congiunzione tra l’australopiteco e il cartongesso, evidentemente; che il marketing è il nome altisonante della circonvenzione di incapace, certo; che se non sai distinguere una cotoletta da un ossobuco il tuo problema non è la grammatica, è l’ottica; ma soprattutto che il lessico è morto e il significato delle parole ha smesso definitivamente di contare qualcosa.

Sembra che l’abbia presa un po’ alta, ma fingiamo per un attimo che mia suocera – donna di una certa età e perciò vittima prediletta dei mefistofelici geni del marketing – non sappia distinguere a vista un etto di fassona da un trito di broccoli; fingiamo che invece di osservare il prodotto o leggere gli ingredienti si fermi al titolo, come un Sangiuliano qualunque al premio Strega; fingiamo anche che, negli anni ’80, dei vegani travestiti da venditori di enciclopedie le abbiano rifilato libri in cui “broccoli” è usato come sinonimo di “carne”, e che per questo la quasi totalità dell’etichetta dell’Esselunga le sia ostile. Perché mai il discrimine della truffa dovrebbe essere la parola “burger”, che è messa lì col suo esatto significato? Ma soprattutto, perché mia suocera dovrebbe comprare i broccoli, che a casa sua non li mangia nessuno?

Ve lo spiego io: perché viviamo nell’epoca più cretina che l’evoluzione umana abbia mai visto, e colgo l’occasione per chiedere scusa alla Londra vittoriana per tutti gli anni in cui l’ho usata come metro di paragone delle allucinazioni collettive. Viviamo un periodo storico e culturale in cui vigono due comandamenti fondamentali: il primo comandamento è che il percepito conta più della realtà, ‘ché a tutti ‘sti psicologi e laureati in comunicazione qualcosa bisogna pur far fare, altrimenti poi vanno su TikTok a piangere tutti i neologismi inglesi che hanno imparato guardando Netflix. Il secondo, in conseguenza del primo e in funzione della morte di Piero Angela, è che va sempre punito il truffatore percepito e mai educato lo stupido fattuale.

Si vieta “burger vegetale” non per difendere il consumatore da una definizione errata – che avrebbe senso se fosse errata, ma non lo è – bensì, al contrario, per difenderne l’ignoranza a danno della realtà. Non si ristabilisce una nomenclatura oggettiva mettendo paletti a chi usa pratiche scorrette, bensì, al contrario, si distorcono le parole per giustificare riflessi condizionati. È come riscrivere le tabelline perché mio nonno era convinto che 7×8 facesse 63; come cambiare il cognome della Michielin perché la gente sbaglia sempre a scriverlo; come rivedere la grammatica di “orgoglio” sul dizionario in base alla lista dei suoni della lingua italiana di cui deficita Big Mama.

Ora, io lo so che vi sembra una reazione spropositata per una delle tante imposizioni stupide che passeranno inosservate, e so pure che qualcuno di voi è talmente rimbambito dalla polarizzazione social da concludere che io sia un vegano integralista, ma un’unione di nazioni civilizzate che si ritrova in veste ufficiale per negare tutti insieme che una parola abbia il suo esatto significato, dando velatamente dei truffatori a coloro che la usano, dovrebbe essere l’argomento di qualsiasi dibattito.

È un segno dei tempi che spiega praticamente tutto; dal tempo sprecato a discutere sulla parola “genocidio” ai sovranisti anti-woke che gioiscono “il presidente è stata invitata in Egitto”; dal bisogno ossessivo di neologismi al fatto che Red Ronnie abbia un pubblico; dagli scrittori antispecisti che menano la fidanzata ai flop della Disney; e poi le case editrici che fanno successo apponendo su libri di serie B copertine simili a quelle dei best seller, gli accordi di pace accolti con “Landini rosica”, gli asterischi che si devono scrivere ma nessuno sa come pronunciarli, le serie TV prese per documentari, gli ascolti di Temptation Island, e avanti così, di psicopatia in psicopatica, fino alla versione geriatrica del Cioè con tutte le imperdibili anticipazioni sulle soap opera turche.

Ognuno si ritaglia una propria bolla di valori o convinzioni, e qualora quelle convinzioni vengano smentite nega, riscrive, inventa parole che gli diano ragione ed etichette per chi gli dà torto, rivendica la supremazia dei proverbi di suo nonno sugli studi scientifici, urla a gran voce che 2+2 fa 5 per poi accusare di faziosità i produttori di calcolatrici. Siamo ben oltre l’analfabetismo, siamo al rifiuto dell’alfabetismo per delegittimare ciò che contraddice le nostre pulsioni, e non si tratta di una manciata di esaltati, non è circoscritto al pratone di Pontida o ai droga party di Forza Nuova, non è riducibile a “la gente non legge più i libri” come piacerebbe a quelli che da tre giorni millantano librerie zeppe delle opere del tizio che ha vinto il Nobel.

Abbiamo invertito in poco più di un secolo il paradigma del saper leggere e scrivere come base per comprendere il mondo. A cosa serve leggere se si leggono solo conferme dei propri pregiudizi? A cosa serve saper scrivere in un mondo in cui Tommaso Cerno dirige un giornale? A cosa serve costruirsi un vocabolario ampio se col giusto numero di like posso imporre agli altri un neologismo maltradotto per rivendicare lotte che nemmeno mi riguardano? A cosa serve la fonetica se chi avrebbe bisogno del logopedista va a Sanremo? A cosa serve la cultura se nei luoghi in cui dovrebbero dominare civiltà e giustizia si difendono i riflessi condizionati a danno dell’esattezza?

Ma soprattutto, adesso come dobbiamo chiamarli, i dischi di Geolier?


Una replica a “Alla moda di Amburgo”

  1. Avatar Dilemmi Satirici – Episodio 4 – Plautocrazia

    […] pensando a Grillo, ma domandatevi: è stata la satira di Grillo a dar vita ai 5 stelle, o è stata una società che rifiuta l’alfabetismo a disimparare la distinzione tra un’iperbole e una linea […]

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