The day after ‘ttomarzo

Le ricorrenze un tanto al chilo, la messa di Natale e la sindrome del martedì

DISCLAIMER: Il seguente articolo è stato pensato e scritto il 9 marzo, ma la proverbiale lungaggine del sottoscritto l'ha trascinato fino al 10. Leggetelo immaginando che sia ancora il 9, oppure, se proprio non riuscite a pensare quadrimensionalmente, rinviate la lettura di 364 giorni. Anno più, anno meno, cambia solo l'avversario dell'Inter.

Ieri era quel giorno lì; quello che dovrebbe essere tutti i giorni dell’anno; quello che non c’è nulla da festeggiare; quello che la mimosa non va bene o comunque non è sufficiente; quello che e allora la parità salariale, l’immagine della donna, la strage silenziosa, i pregiudizi, il patriarcato; quello che metteteci voi il resto, io sono già esausto così.

Ieri era quel giorno lì come lo era il 27 gennaio, quando al posto delle mimose c’erano i pigiami a righe e al posto delle manifestazioni in piazza i film struggenti alla TV; sarà quel giorno lì il 25 aprile, coi fazzoletti rossi in qualche redivivo circolo di paese e i viva la resistenza ora e sempre nei megafoni, e sarà quel giorno lì il primo maggio coi trapper sul palco dei lavoratori e i lavoratori in mutande sui divani; sarà quel giorno lì anche il 28 giugno, con l’arcobaleno a prendere il posto delle tinte unite e tutti i Vannacci del mondo a reprimere sé stessi e dire “Signora mia, dove andremo a finire”; era e sarà quel giorno lì molte altre volte, e io penso a Vasco che lo odia “Perché quel giorno lì, lei forse torna qui / A prendere le cose che ha, dice, dimenticato lì / ma brava, fai così / vieni di lunedì!”.

Sì, ieri non era lunedì, ma le ricorrenze condivise, soprattutto quelle dal sapore di vago impegno sociale o politico, hanno un po’ tutte il sapore del lunedì. Ce l’hanno perché il lunedì è l’unico giorno della settimana che è sulla bocca di tutti ogni volta che arriva: è sulla bocca del collega che arriva tardi in ufficio perché nel weekend ha rincorso i draghi a suon di Spritz e non sa più nemmeno come si chiama, figuriamoci sentire la sveglia; è sulla bocca di quello che fa il simpatico alle poste e dice che è lunedì per tutti, anche per i computer, mentre l’impiegata allo sportello asserisce “il terminale non risponde” (un giorno affronteremo anche il problema di una civiltà che nel 2024 usa la parola “terminale”, ma non divaghiamo) è sulla bocca degli studenti che occupano le pensiline con l’aria rincoglionita di chi sogna il prossimo sabato come Filippide il traguardo; è sulla bocca di chiunque, se escludiamo i parrucchieri e le istruttrici di pilates.

Non ho mai sopportato le giornate internazionali, di qualsiasi argomento. Le riesco a digerire se si tratta di occasioni stupide per mangiare o fare parte di strane sette che si vestono in maniera eccentrica e fanno mosse bizzarre, come la giornata mondiale della pizza, il talk-like-a-pirate day, il conclave, la presentazione del nuovo libro di Bruno Vespa o l’anniversario della marcia su Roma. Quando però c’è di mezzo una qualche ricorrenza pesante o un tema particolarmente sensibile mi ritrovo sempre a pensare che è di nuovo lunedì e che dovrò prepararmi all’ennesima giornata in cui tutti ma proprio tutti tutti tuttissimi parlano del fatto che è lunedì con l’enfasi di William Wallace prima della battaglia.

Il lunedì tutti parlano del lunedì, e poi il giorno dopo è inesorabilmente martedì. Un martedì di cui non frega nulla a nessuno, e non è un caso che ci siano centinaia di canzoni di successo sul lunedì, mentre l’unica che nomina il martedì è quella degli Stones il cui verso più riconoscibile recita “who could say the name of you?”. Così, se ieri era tutto un fiorire di attenzione per le donne, celebrazione delle donne, rivendicazione delle donne, successi delle donne, grandi donne della storia, donne meglio degli uomini appartenenti al sesso opposto, il futuro che è donna, il rock che è donna, la lotta che è donna, le donne che sono delle donne e di nessuno altro, donne donne donne, ancora donne e canzoni della Mannoia, oggi che è metaforicamente martedì sembra già passato un secolo. E di che si parla oggi? Boh, c’è la Serie A, litigheremo sul VAR.

Non dico tutto ciò perché mi voglia accanire in modo particolare con l’8 marzo – anche se come occasione per stuzzicare i nervi è tra le più ghiotte, sarà che anche la suscettibilità è donna – non lo dico perché mi stiano sullo stomaco le mimose (forse un po’ sì, ma non sono qui per parlare di fiori spugnosi e maleodoranti) e nemmeno per dire la solita banalità che l’8 marzo dovrebbe essere ogni giorno dell’anno, e che le parole non bastano, e che è inutile dire tante belle cose se poi il giorno dopo non cambia niente – per chi mi avete preso, per Gramellini? – Lo dico perché l’idea di concentrare celebrazioni e buone intenzioni teoriche in un giorno preciso del calendario non è impegno sociale, non è memoria, non è un’occasione di riflessione collettiva e non è neanche sensibilizzazione: è religione.

L’altroieri stavo scrivendo un pezzo su Margherita Hack e Cristiana Capotondi – sarà online tra un paio di giorni, lo dico perché vi immagino fremere per l’attesa – e quando mi sono accorto che sarebbe stato verosimilmente pubblicabile l’8 marzo ho scritto un tweet a riguardo, chiedendo “che faccio, aspetto?”. Ho volutamente omesso dettagli sul contenuto dell’articolo, e nessuno degli utenti che hanno risposto ne ha chiesti, come nessuno ha sottolineato che fosse la domanda stessa ad essere stupida: la sola idea di pubblicare un pezzo satirico con protagoniste due donne in quel giorno lì suonava a tutti come una provocazione eccessiva su cui essere a favore o contro, e tanto bastava a farle assumere la dimensione dell’eresia.

Se in questo momento state pensando che in fondo ci sta, è solo per un giorno, è un piccolo gesto di sostegno e non sarà poi tutto ‘sto gran sacrificio, sono costretto a farvi notare che è lo stesso atteggiamento con cui mia madre – così come le madri di chiunque abbia smesso di temere che il cielo gli cada sulla testa – tenta invano di farmi andare alla messa di Natale. Dai, almeno a Natale non bestemmiare se gli avversari fanno primiera e settebello in prima mano. Dai, almeno oggi lascia perdere quelle magliette coi teschi e metti una camicia. Dai, almeno oggi evita di sottolineare le contraddizioni, lo sai che a tua zia non piace quando lo fai. Dai, almeno oggi lascia perdere. Almeno oggi che è Natale lunedì l’8 marzo lo Shabbat lo Star Wars Day la finale di Sanremo quel giorno lì. Puoi ricominciare con le tue miscredenze domani, che è martedì e già non frega più niente a nessuno.

È il 9 marzo: gli hashtag di ieri continuano ad essere saldamente in trend su Twitter, e ci rimarranno almeno fino all’inizio della partita dell’Inter, ma la sindrome del martedì ha già pervaso gli umori di tutti, soprattutto di quelli che ieri parlavano dell’8 marzo come Adinolfi del giorno del giudizio, Wallace della battaglia di Falkirk o mia madre della messa di Natale. 24 ore fa sembrava che stessero marcando una linea indelebile destinata a dividere il prima dal dopo, l’Avanti Ottomarzo dal Dopo Ottomarzo, mentre oggi arrotolano striscioni da riporre nel solito armadio, buttano nel cestino le mimose appassite, organizzano i buoni sentimenti un tanto al chilo in comodi sacchetti gelo da conservare, danno una ripulita alla cucina piena di panettoni e bottiglie bacheca social barricadera siempre.

È l’alba del giorno dopo, the day after ‘ttomarzo: qualcosa è stato raggiunto? Sì, no, boh, cosa importa? È martedì, non è più tempo di occuparsi di certe cose, ho anche già tolto la bavaglia del lunedì riposto il libro che mi ha regalato mia nonna autografato Michela Murgia. La cosa importante è che ieri sia stato quel giorno lì per tutti, che nessuno abbia osato disturbare i festeggiamenti le liturgie il sonno dello Yeti le sacrosante rivendicazioni che hanno fatto di oggi un giorno migliore di ieri.

Morte agli infedeli agli eretici alle magliette coi teschi al martedì al patriarcato. Libertà!!! Ehi, è una fetta di pandoro quella?

Una risposta a "The day after ‘ttomarzo"

Add yours

Lascia un commento

Blog su WordPress.com.

Su ↑