Rispetto e castigo

Il mio tema per la maturità e l’impulso a far battute sul morto di giornata

DISCLAIMER: il seguente pezzo mi sembrava un'idea originale, finché non ho scoperto che Luca Bizzarri ha fatto la stessa pensata per il suo podcast. Ovviamente l'ha fatto molto meglio di me, e quindi la prospettiva giusta è che sono io ad aver fatto la sua stessa pensata.

Ho rifatto l’esame di maturità. Solo la prima prova, naturalmente, che è l’unica di cui si parla da sempre, verso la quale per settimane si fanno addirittura previsioni cabalistiche e c’è sempre qualcuno che dice “questo è l’anno di Verga” ma poi la spunta Tomasi di Lampedusa, perché sarà pure la maturità ma anche al ministero si guarda Netflix. Delle prove successive non frega nulla a nessuno; sarebbero quelle più importanti, essendo di indirizzo, ma siamo un paese in cui ci si atteggia da liceali pure se si è fatto l’alberghiero (io non l’ho detto, ma avete pensato alla premier, faziosi che non siete altro) e quindi maturità è solo e soltanto il tema. Se poi il perito meccanico deve usare la calcolatrice per risolvere le tabelline che ci frega, hai letto che bella analisi su Pirandello?

Delle altre prove non frega nulla a nessuno, dicevo, men che meno a quelli che si sono diplomati quando c’erano i sesterzi ma ricordano tutti l’autore che uscì quando toccò a loro, e puntualmente ce lo raccontano sui social, condito da resoconti struggenti sulle vivide emozioni di quei giorni, e il brivido di un passaggio importante della vita, e la solita canzone di Venditti, e poi ancora altri slanci narrativi di un revisionismo tale che ho visto i militanti di Forza Nuova prendere appunti. Statisticamente, l’autore “uscito” al proprio esame di maturità è la seconda cosa che qualunque diplomato degli ultimi 50 anni ricordi lucidamente; la prima è dove si trovava l’11 settembre del 2001, traete voi le conclusioni.

Comunque, ho letto le tracce di quest’anno e ho provato a tornare sul banco con il vantaggio di farlo per gioco. Ho scartato quelle letterarie perché già la volta scorsa era uscito Dante e quella traccia è ancora oggi la più grossa botta di culo della mia vita, era impossibile mi ricapitasse, e infatti. Ho scartato pure le tracce di attualità, delle quali nella storia non si ricorda un solo esempio che non vomitasse retorica da vecchi (quest’anno le due tracce erano un articolo sull’indignazione nei social e un discorso di Borsellino sui giovani; fossero state tre rimanevano soltanto le mezze stagioni). Insomma, alla fine ho optato per il tema argomentativo – chiamato così perché “argomento a piacere” faceva brutto – e nello specifico la traccia su “rispetto” scelta dalla Treccani come parola dell’anno 2024.

Il tema, considerato che stavolta nessuno può bocciarmi, fa all’incirca così:

Rispetto è una parola antica, non soltanto perché ha un etimo latino e non un hashtag di provenienza traslitterato a forza da neologismi inglesi; è una parola antica perché il suo significato è universale e fuori dal tempo. Potrei chiuderla qui con mezza frase e lasciare ai posteri le parafrasi, per andare a stare come d’autunno sugli alberi le foglie, ma non si è mai abbastanza coraggiosi da diventare ermetisti definitivamente. Perciò cerco di arrivare alla fine del foglio protocollo con una lunghissima e inutile tautologia a tratti demenziale.

Il significato letterale di “rispetto” ha a che fare con il guardarsi indietro e volgere l’attenzione – respicere, per l’appunto – verso ciò di cui solo dopo attenta osservazione e considerazione si va, eventualmente, a mostrare deferenza. Il problema – antico quanto la parola stessa – sorge quando rispetto e deferenza si mescolano; quando ci si dimentica che la deferenza è conseguenza, non causa, e si finisce a urlare “lei non sa chi sono io” al fruttivendolo che non vuole farti lo sconto sulle nespole. Si dice “guadagnarsi il rispetto”: di un avversario, di una platea, del pubblico, di chiunque: fai qualcosa con impegno e vedi se la gente lo apprezza, o anche solo lo capisce. Ma si dice anche “pretendere rispetto”, che è l’ultima risorsa degli scarsi, l’autorità rivendicata da chi non sa essere autorevole, il PhD da estrarre quando un muratore con la terza media ti fa notare che hai detto una cazzata abnorme, la volontà precisa di sostituire l’osservazione attenta (e con lei il pensiero critico) con la sudditanza; insomma, la regola aurea di ogni dittatore, dal pelatone di Predappio fino al padre e la madre e il loro bastone in quella canzone di De André, passando per Maria De Filippi.

Parola antica, dicevo; vittima di secoli di appropriazioni indebite come ogni altra parola antica (mi viene in mente “merito”, chissà come mai) eppure proprio per questo molto più incisiva e attuale di tutte le etichette identitarie inutilmente specifiche con cui si prendono i big likes. Quindi qui, adesso, vi spiegherò la mia personale appropriazione indebita della parola “rispetto”, perché in fondo il tema è mio e me lo gestisco io.

La mia idea di rispetto è fatta di prese in giro. Come quegli imitatori parodisti che dicono di prendere in giro soprattutto i personaggi che amano, io non posso pensare di rispettare una persona, un ruolo, un fatto storico o un semplice argomento se non riesco a riderne. Il comportamento più rispettoso che io possa concepire è fare una battuta; più l’argomento è delicato più cerco ossessivamente quella battuta, perché sono fermamente convinto che ridere anche della peggiore tragedia significhi averla osservata così a lungo e da così tante prospettive da averne trovato il lato ridicolo, che c’è sempre. Anche solo un angolino, un dettaglio, una spigolatura, ma c’è. Se non la si vede è perché non si è osservato abbastanza, e non osservare abbastanza per me è la vera mancanza di rispetto.

Però alla fine di solito trovo la battuta, e la fregatura è che una volta trovata devo per forza dirla. Più dell’onor poté lo humour, e nel tempo questa cosa mi ha causato una moltitudine di sguardi di rimprovero, insulti più o meno coloriti, minacce di morte via social e molte altre reazioni sguaiate che, non avendo tra le mani fallimenti istituzionali da occultare nella caciara, mi sono sempre limitato ad archiviare ridendo senza indossare lacrime artificiali o telefonare a Sallusti. Fanno parte del gioco; le regole sono così, è la vita ed è ora che cresci, devi prenderla così, cantava quello, e se a qualcuno viene il vomito per un po’ di umorismo non significa che per me non possa essere stupendo.

So che è la mia prospettiva ad essere anormale, e a volte è il troppo tempismo a farmi considerare un senza dio, ma ho imparato a mie spese che il gusto della risata verde, della battuta nel mezzo della tragedia, dello schiaffo sulla scottatura fresca, per me vale tutte le imprecazioni di chi mi ha augurato una sorte terribile per aver scritto “Tanto spavento ma nessun danno alle macerie” quando un paio d’anni fa una forte scossa di terremoto a L’Aquila fece ritornare l’incubo per un attimo. La domanda che mi (vi) faccio è: qual è il comportamento più umano, più rispettoso? Donare sacralità al percepito degli altri trattandolo coi guanti, oppure osservarlo con impegno fino a mostrarne un lato che per il troppo coinvolgimento può sfuggire, magari strappando una risata?

È retorica, ovviamente, ed è anche una scusa ben architettata per continuare a pisciare nell’acquasantiera di chi si offende per nulla, ma io credo che la gente si sia abituata sempre più a concepire il rispetto come una campana di vetro da apporre sulle proprie sensibilità (le campagne finto-progressiste per mettere al bando le parole ne sono dimostrazione plastica). Il problema è che se prendi una campana di vetro e la chiami “rispetto”, tutto ciò che la sfiora la campana, anche la più blanda delle battute, diventa automaticamente “irrispettoso”, quando invece a volte è soltanto irriverente. C’è un’enorme differenza, ed è lungo quella differenza che corre la mia idea di rispetto fatto di sfottò.

Certo è difficile spiegare ai suscettibili che ciò che li ha infastiditi di primo acchito era in realtà un segno di estremo rispetto: in questi anni di percezioni esasperate, e questioni morali a forma di card Instagram, la lesa intoccabilità emotiva è diventata il peggior reato immaginabile, e hai voglia a sperare che qualcuno arrivi a leggere fin qui, con tutte le importantissime battaglie di civiltà che ognuno combatte dalla propria cameretta contro il mondo cattivo che vuole triggerarli.

Insomma, se non ristabiliamo in fretta il significato originale della parola “rispetto”, di questo passo il rischio di soccombere alla logica dei due pesi e delle due misure è altissimo, e in un attimo potremmo ritrovarci in una realtà da incubo in cui lo yorkshire della tua cugina animalista può pisciarti sulla caviglia e guai a te se non lo consideri un gesto di affetto, ma se fai una battuta sulle tardone frigide tutti ti guarderanno con disapprovazione, ti diranno che sei irrispettoso, strabuzzeranno gli occhi e la cugina impazzirà di rabbia; tutto questo solo perché la bara della zia è ancora aperta.


4 risposte a “Rispetto e castigo”

  1. Avatar My Low Profile

    Rispetto, politicamente corretto sono solo museruole. Lo dicono tutti, ma a voce più bassa, senza farsi sentire, perché non è un comportamento sociale giusto. Lancia il sasso e non nascondere la mano…tanto ormai il vetro l’hai rotto!🎩

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    1. Avatar Lozirion

      “Vetri rotti” è il mio secondo nome. 😁

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      1. Avatar My Low Profile

        Il mio è rompicoglioni. Vale?😁

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        1. Avatar Lozirion

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