Mi fa strano iniziare proprio questo pezzo citando Cremonini, e forse anche questa è una triste ammissione di far parte del pubblico di merda che non ha mai capito l’avanguardia, ma se c’è un giorno in cui è giusto ricordare che “Nessuno vuole essere Robin” è proprio oggi. Oggi che non c’è più un uomo che di essere co-protagonista non ha mai avuto paura, anzi, ne ha fatto meraviglia, e io sono fermamente convinto che oggi noi musicomani inguaribili non ricorderemmo Freak “Batman” Antoni nello stesso modo e con la stessa venerazione, se due passi dietro di lui sul palco non ci fosse stato Dandy “Robin” Bestia.

Mi fa strano doverlo raccontare ai miei coetanei e pure a qualcuno di più anziano, chi sia stato Dandy e cosa siano stati gli Skiantos; io, nato tra “Ti spalmo la crema” e “Non c’è gusto in Italia ad essere intelligenti”, che oggi mi ritrovo una miserabile manciata di persone con cui condividere il dolore per la sua morte. Eppure il lascito di quel meraviglioso esperimento fuori controllo è ancora qui, più presente di quanto i nativi digitali – qualsiasi cosa questo significhi – possano mai pensare spippolando su Wikipedia per decidere se per quel tizio di cui han visto passare la notizia della morte – in un nanosecondo tra un TikTok e una minchiata di Salvini – valga la pena di fingere contrizione e acchiappare qualche like prima di tornare ad ascoltare Olly.

Il lascito è ancora qui, nei vecchi live in cui Freak faceva stand-up comedy ante litteram senza menarsela da precursore. È ancora qui nelle canzoni irriverenti che scoperchiano i nostri inossidabili difetti, gli stessi che oggi noi attribuiamo ai ragazzini, come i nostri padri attribuivano a noi quando eravamo ragazzini, e così via fino a Caino e Abele. È ancora qui, nell’impulso a cercare altro mentre il mondo si adagia su sé stesso; nel bisogno di rifiutare la cazzata che si debba abbassare l’asticella per allargare la platea; è ancora qui, in un termine ormai abusato ma forse mai così azzeccato: il genio.

L’intera esperienza degli Skiantos è costellata dalla genialità, che è per definizione fuori dal proprio tempo, aliena dal proprio contesto, invisa a chiunque pensi che le generazioni si misurino in anni e non in consumi culturali. La natura della genialità, malamente sintetizzata nell’espressione “genio e sregolatezza” come se non fosse una pleonastica ripetizione, è il motivo per cui dei geni veri – che sono pochi, pochissimi – finiamo sempre a domandarci cosa direbbero oggi se fossero ancora qui, ignorando il fatto che finché sono stati qui a dire quel che avevano da dire non ce li siamo cagati di striscio. Ma se marginalità in vita e mirabolanti retrospettive postume sono il destino dei geni, ancor più arido è il destino dei vice geni.

È difficile, forse impossibile, parlare di Dandy senza nominare Freak; anch’io, che ho iniziato questo pezzo come un tributo sincero, non posso fare a meno di parlare della genialità di Dandy in funzione di quella (forse maggiore, forse solo più esuberante) di quell’altro folletto incontrollabile. Nessuno vuole essere Robin, dicevo all’inizio; nessuno vuole restare due passi indietro in un mondo di telecamere frontali, nemmeno quelli che per cantare “in un mondo di John e di Paul io sono Ringo Starr” hanno scelto il palco grosso; nessuno oggi accetterebbe l’etichetta di “co-fondatore”, e forse nei corsi di psicologia hanno già trovato una parola inglese per definire il trauma di essere genio al cospetto del genio e accettare il ruolo di vice.

Forse sta anche qui il lascito di Dandy: nella ridicola sensazione che provo ora, mentre tento di chiudere un pezzo che si è avvitato su sé stesso con tante, troppe parole per dire solo “Ciao Dandy, e grazie del genio”.