Scappellamento a destra

Questo Festival è struccato e lo vince la noia mortale

Per parlare di Sanremo comincerei dal trucco. No, non quello con cui Tony Effe si è coperto i tatuaggi la prima sera, come un affiliato alla Yakuza che però non vuol perdere il posto in banca. Comincerei dal trucco teatrale di Lucio Corsi, che serve a far sparire l’uomo e apparire l’artista, ad essere altro da sé, a diventare strumento di ciò che è – o dovrebbe essere – più alto; il trucco che è maschera di una fragile magia dall’equilibrio instabile. La stessa magia e lo stesso equilibrio che Carlo Conti e Mahmood distruggono nella serata delle cover, mettendosi a chiacchierare e fare selfie con Topo Gigio, ignorando l’artista ancora in scena e invadendo il terreno sacro dell’arte con i cazzi propri, come Will Smith che tira il pugno a Chris Rock per fare il bullo delle giostre di fronte alla moglie; come la Marcuzzi che si struscia su Achille Lauro fregandosene della sua evidente concentrazione su una performance da portare avanti; come i turisti che pranzano al sacco sui gradini dell’Acropoli; come il “sì ‘na pret” urlato a Rose Villain; come voi e il vostro stramaledetto Fantasanremo, che costringe un gigante come Massimo Ranieri a umiliarsi facendo mosse buffe al servizio di un giochino online.

Voglio parlare del trucco perché la faccia imbiancata del cantautore toscano è l’unico residuo di maquillage televisivo in un Festival completamente struccato, e non lo sto dicendo in senso positivo. Un Festival svestito del benché minimo accenno di spettacolo, con ospiti e co-conduttori trattati alla stregua di camerieri il cui unico compito è portare il piatto a tavola e poi sparire, e così i cantanti in gara, secondo l’antico adagio “taci e pensa a cantare” tanto caro a quelli che fischiettano Il pescatore di De André mentre i barconi affondano; un Festival in cui l’intrattenimento è stroncato sul nascere dal trucchetto fasullo del conduttore frettoloso, il quale non ha 5 secondi per lasciar ridere il pubblico delle sferzate di Geppi Cucciari e le parla sopra ad ogni occasione, ma incredibilmente trova il tempo di infilare un accenno alle foibe prima di dare la linea al TG, o ribadire la genitorialità di chiunque in ogni momento (spicca per inopportunità il “soprattutto sei papà” detto a Ermal Meta, il quale poi immagino sarà stato felicissimo di esibirsi in qualità di inseminatore con l’hobby della musica).

Non è un caso, d’altra parte, che i più entusiasti del Festival carlocontiano siano politici e giornali di destra: da Pillon e i suoi compagni di lobotomia che si fanno le seghe sulle madri malate altrui, fino a Salvini che di giorno parla da papà e la notte sta sui social a mettere like con la mano sinistra alle foto di una che potrebbe essere sua figlia; dagli editorialisti di Porro che vomitano le solite accuse di politicizzazione fuoriluogo a Benigni, fino ai titolisti del Secolo d’Italia che ieri uscivano con “Vince Olly, perde Elly” a pagina intera. Insomma, tutti quelli che brindavano all’idea di un festival “senza politica” e che poi hanno passato tutta la settimana a scrivere di rosicate della sinistra, ideologie woke al tracollo, sconfitta del gender, Elodie cattiva perché non vota Meloni, i progressisti odiano Cristicchi perché non ha due padri, il PD schiuma rabbia per gli uomini senza gonna, bravo Conti a ricordare le foibe, Saviano suca e altre prove che la loro idea di non-politico è: le nostre idee politiche sì, le altre a bruciare sul rogo.

Non è un caso che il Festival che tanto piace ai sovranisti sia quello in cui nessun comico sia mai stato in scena da solo. Mai in nessuna occasione in nessuna delle serate, che si trattasse della pericolosissima bolscevica Geppi Cucciari, del sottovalutato Nino Frassica, della guascona Katia Follesa o di Papa Roberto XXIII da Firenze. Mai in scena senza il ligio funzionario Conti a fare le veci di controllore, moderatore e di annichilitore di scena artistica. Mai con un riflettore esclusivo a rischiare di dar l’idea che la comicità possa prendersi i suoi spazi e non sia soltanto un simpatico elemento di disturbo. Mai autorizzati a guadagnare il proscenio in autonomia, figuriamoci a toccare tasti sensibili – che poi sarebbe il mestiere del comico, ma chi lo spiega a gente che ride con le vignette di Osho? – Mai con licenza di strappare nulla di più di una risata da barzelletta di Pierino, pena le palate di merda a mezzo stampa o l’annullamento del matrimonio con Simon Le Bon.

Comunque, al netto delle affidabilissime opinioni di personaggi che dopo 30 anni a urlare “il Festival va chiuso” si svegliano folgorati dal fascino della kermesse per raccontarci quanto finalmente sia straordinario assistere a Tony Effe che piscia sulla tomba di Califano, la realtà è che il Sanremo di Carlo Conti è stato fiacco, lento nonostante la fantomatica fretta, retorico ben oltre gli stucchevoli monologhi delle edizioni precedenti, repellente nonostante l’assenza delle gag di Fiorello e piatto nonostante il décolleté di Elettra Lamborghini. Il vuoto di originalità e la totale mancanza di intrattenimento sono stati tanto evidenti da costringerci a far caso alle canzoni, che fanno mediamente cagare nello stesso modo da un pezzo, ma chi se n’è mai accorto, mentre Amadeus e la sua verve da villaggio Alpitour erano impegnati a ridefinire il concetto di imbarazzo?

Parafrasando una celebre incursione sanremese: questo Festival è struccato e lo vince la noia mortale. Nel grigiore moscio della 75° edizione, i veri assenti sono i colori, il trucco, le maschere, i lustrini e le paillettes, altro che la teoria del gender e le altre puttanate inesistenti con cui Porro paga il mutuo. Non c’entrano i cantanti scarsi o paraculi, non c’entra il monopolio autoriale della triade Petrella-Abbate-Simonetta, non c’entra Paolo Kessisoglu che nella vita ha suonato con Satriani ma va a Sanremo con la figlia perché è soprattutto un papà. E non c’entra nemmeno Carlo Conti, che fa l’unica cosa che sa fare e nella sua approssimazione sostiene di aver fatto una conduzione alla Baudo, dimenticando che, per comici e artisti, Pippo era la miglior spalla possibile e non un ausiliario del traffico pronto a distribuire multe.

C’entra invece lo “scappellamento ovviamente a destra” buttato lì tra le righe da Geppi Cucciari – in un attimo in cui Conti era distratto dall’orologio – con quel “ovviamente” che da solo è un intero capitolo del manuale della satira. C’entra un fatto semplice, che è chiaro a chiunque non sia fesso o stronzo (o entrambe le cose, e per questo sia stato messo in vigilanza Rai in quota governativa): alla TV servono i lustrini e non i paletti; l’intrattenimento deve stupire e meravigliare, non rappresentare, tantomeno rappresentare chi è allergico ai colori; soprattutto, in TV ci vogliono maschere e cerone, umorismo scorretto, uomini con la gonna, donne coi baffi e qualsiasi altra cosa turbi il fragile equilibrio mentale di gente come Vannacci. Non per lui e per la sua pubertà mai risolta, ma perché chiunque predichi normalità nell’arte è destinato a portare noia: le facce struccate sono noiose, gli abiti comuni sono noiosi, l’ordinarietà è noiosa, la realtà è noiosa, la comicità che non ti offende mai è noiosa, i sentimenti a buon mercato sono noiosi, le rime baciate e le canzoncine d’amore sono noiose, la mamma è noiosa.

La vita quotidiana è noiosa, ed è per questo esiste l’arte: perché di normalità ne vediamo fin troppa tutti i giorni, e a malapena la sopportiamo; abbiamo bisogno di lasciarci stupire in mezzo a tutta quella normalità. Se voglio soltanto piangere per una vecchia con la demenza, faccio un giro in ospedale o aspetto che tocchi a mia madre, non mi metto ad ascoltare quel paraculo di Cristicchi; se voglio soltanto le frasi da baci Perugina mi compro i cioccolatini, non ho bisogno che Gabbani si senta inspiegabilmente Modugno; se voglio passare 5 ore monotone senza il minimo stupore vado in ufficio, non all’Ariston a vedere Conti stroncare le battute ai comici di talento. La televisione funziona quando non ci somiglia, perché se vogliamo vedere la nostra immagine riflessa, la TV basta tenerla spenta.


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