
DISCLAIMER: il seguente pezzo contiene nostalgici riferimenti alla cultura popolare del secolo scorso, rivalutazione al rialzo di fenomeni sociali aberranti, iconoclastia generalizzata, cocaina, dietrologie espiatorie e tutto ciò che avete già visto alle commemorazioni per i 25 anni dalla morte di Craxi.
Avevo iniziato il nuovo anno con l’idea di non scrivere subito della trita attualità politica e dei clown che abbiamo messo a decidere le sorti del mondo. Ho trovato decine di spunti nelle ultime settimane, ma ho cercato di resistere per mantenere un margine di parvenza intellettuale e velleità culturale, sicuro che a un certo punto, a un punto certo, l’universo mi avrebbe costretto alla fredda cronaca di una società al cui confronto Jonestown pare la terra promessa.
Comunque, ogni mio buon proposito è volato via al primo cambio di vento come Mary Poppins, ed eccomi qui ancora una volta a parlare di cose inutili destinate a perdersi, in luogo di altre più importanti e destinate all’eternità come il Crystal Ball o le sceneggiature di Mel Brooks. Tutto ciò per dire che ho seguito l’insediamento alla Casa Bianca di Trump e del suo amichetto, e come al solito ne ho partorito un’idea che dovrei spiegare a uno psichiatra, ma scriverla qui costa meno. Vi avverto, sarà lunga e psichedelica, non cominciate se non intendete finire; oppure fate come vi pare, non siamo in Jumanji.
Partiamo dall’inizio: negli anni ’80 in Italia il PSI trasformava il socialismo in una barzelletta, Drive-in permetteva a Francesco Salvi di maneggiare dischi di platino invece che pompe della benzina, il Live Aid condannava ogni causa sociale dei decenni futuri a dipendere da testimonial famosi e inquadrature ammiccanti in TV, l’eroina scriveva sceneggiature per Ligabue, e la cocaina sostituiva le balere con le discoteche. Naturalmente l’informazione utile a questo pezzo è soltanto l’ultima, tutte le altre le ho messe solo per il gusto di inimicarmi gente a caso; comunque proseguiamo, altrimenti qui facciamo notte. Nascevano le discoteche, dicevo, e con loro un variegato sottobosco di mode agghiaccianti, status symbol inspiegabili, esterofilia a buon mercato, musica artificiale e terminologia ridicola.
È negli anni ’80 che ci siamo convinti che la vecchiaia sia il peggiore degli spauracchi – Roger Daltrey diceva “I hope I die before I get old” già nel ’65, ma in quell’anno da noi il nuovo che avanzava era Peppino Di Capri – così gli adolescenti di allora reagirono inventandosi un gergo per cristallizzare la propria giovinezza in eterno e snobbare i matusa. Certo, lo slang dei ragazzini esisteva anche prima, ma ad un certo punto era fisiologico abbandonarlo. Si chiamava età adulta; una cosa che Tony Effe vede solo quando cena con la peperonata. Comunque, tra le mille etichette identitarie con cui gli adolescenti si baloccavano per dare un tono ai propri vestiti quando Jenner era solo un atleta olimpico, ce n’è una che mi è tornata in mente guardando il carrozzone circense per l’insediamento di Trump: i truzzi.
A questo punto si rende necessario un momento Piero Angela. Immaginate ci sia in sottofondo l’Aria sulla quarta corda.
La parola “truzzo” indica una particolare categoria di adolescenti dai gusti non propriamente raffinati, che durante gli anni ’80 (in alcune zone d’Italia già sul finire dei ’70) si contrapponevano ai tamarri. I due gruppi sociali erano in realtà equivalenti nelle caratteristiche principali – vestiario esclusivamente di marca, smisurata adorazione per gli abiti aderenti, musica rigorosamente techno/house per giustificare il consumo di cocaina, auto vistose con motore truccato, accessori fosforescenti, consanguineità dei genitori eccetera – ma si distinguevano per origine ed estrazione territoriale: i tamarri erano meridionali, oltre che di radici più antiche (tamarri deriva dall’arabo tammār, venditore di datteri); i truzzi invece, nati proprio in quegli anni e in risposta ai tamarri emigrati al nord, popolavano le principali città del settentrione. È interessante notare che entrambi i gruppi sociali si additavano vicendevolmente con l’etichetta dell’avversario usata in senso dispregiativo; nel giro di pochi anni, comunque, ambedue i termini sono diventati per ovvie ragioni sinonimo di persona rozza e predisposta ad ostentare cattivo gusto.
Fine del momento Piero Angela, potete togliere Bach e rimettere Tananai, ma almeno vergognatevi.
I truzzi, dicevamo. Alla vigilia dell’inauguration day, sul palco della festa dei repubblicani sono saliti i Village People, con tanto di abiti originali recuperati dalle macerie dello Studio54 e dose aggiuntiva di Fentanyl per combattere l’artrite reumatoide, e hanno eseguito “Y.M.C.A.” con il neo-presidente a sgambettare dietro di loro come mio nonno alla sagra del liscio. Tutto molto bello, per carità, e chiunque neghi l’istinto di fare il balletto ogni volta che parte quel ritornello malefico sta solo mentendo a sé stesso; però mentre osservavo la scena ho realizzato due cose: la prima, prevedibile, è che – Village People là, Povia qua – cambiano le nazioni ma la destra è sempre costretta a raschiare il fondo del barile discografico; la seconda, chiaramente più significativa, è che questa trasversale ondata politica estremista e violenta, da Trump a AfD fino al ritorno dei Modà a Sanremo, non è affatto figlia di un rigurgito fascista, ma di un molto più pericoloso rigurgito truzzista.
Lo so, è un doppio carpiato, ma lasciatemi spiegare.
Quando ho nominato i truzzi per la prima volta in questo pezzo, probabilmente buona parte di voi ha pensato agli ultimi anni ’90 e i primi 2000, e non vi sbagliate: quell’etichetta relegata a una delle tante nicchie negli ’80 è ritornata tempo dopo, per mano di una nuova generazione di adolescenti con il gusto dell’orrido. Come sempre succede per il revival, le reclute mancano però di qualsiasi mordente o cognizione di causa; credono di essere proprio come gli originali, ma in realtà non ne sanno nulla e si attaccano a una blanda imitazione estetica, indossando i Levi’s 501 di papà, facendo saluti romani da giustificare con l’autismo, diventando senatori leghisti o comprando speed di terza qualità dal resident DJ dell’Insomnia che ora fa il bidello al liceo.
È successo così coi neo-truzzi sul finire degli anni ’90, come sta succedendo coi neo-fascisti oggi – e Piero Angela poco fa non l’ha detto perché è un signore, ma se avete ben presente i soggetti sapete quanto i due fenomeni siano quasi esattamente sovrapponibili e ugualmente dipendenti da polveri bianche – ma torniamo all’insediamento di Trump. Sì, certo, i decreti attuativi per compiacere il Ku Klux Klan, la grazia ai terroristi e la revoca di cittadinanze ai disgraziati, l’OMS, gli accordi di Parigi e tutto il resto. Sembra fascismo, quasi nazismo, ma non fatevi trarre in inganno; non è tanto la stupida crudeltà gratuita il dettaglio rivelatore, quanto la particolare frenesia nel manifestarla, e solo chi non ha mai conosciuto un truzzo può non vedere in tale frenesia le evidenti sembianze del cocainomane allo Studio Zeta nel giorno di paga, che spara tutte le cartucce insieme sperando di racimolare figa per inerzia nel resto della settimana.
Al netto delle proposte aberranti è tutto qui, senza macchinosi sotterfugi massonici o complessi meccanismi a cascata, tanto più applicati da una manovalanza di gente che senza un tutorial YouTube non saprebbe avvitare una lampadina. C’è un’ondata di violento desiderio di rivalsa e di ritorno al passato, è più che evidente a Washington come a Busto Arsizio, ma non si parla di QUEL passato. Nessuno degli abbonati alla curva della Lazio reggerebbe il minimo accenno del fascismo vero, proprio come i simil-truzzi dei ’90 abituati allo speed non avrebbero retto la bamba vera che consumavano i loro predecessori. Ogni neo-qualcosa è semplicemente la farsa di ciò che era tragedia, e per quanto Patriota88 e Tricheco74NoEuro si credano eredi di Galeazzo Ciano, rimarranno soltanto un simulacro estetico con gli ormoni cristallizzati. Per tornare al Tycoon, nessuno di quelli che girano col cappellino MAGA collega l’idea della “grandezza americana” a Hoover o Roosevelt, o Jefferson, ma neppure a un altro qualsiasi periodo condiviso: ognuno pensa ai suoi 16 anni e vuole tornare lì, a quando le luci strobo non gli causavano l’emicrania.
Non siete ancora convinti, lo so. Pensate ancora che oggi, un sessantenne che va a Predappio una volta l’anno per sfidare il decadimento delle articolazioni delle braccia, lo faccia perché gliene freghi davvero qualcosa di veder tornare le camicie nere, e non perché la collanina con la croce celtica gli ricorda quando gli tirava ancora il cazzo e faceva le impennate col Garelli. Pensate seriamente che un quarantenne italiano felice per l’elezione di Trump sia uno che vuole la distruzione della democrazia, e non uno che paga le ovvie conseguenze delle droghe economiche e dell’esistenza di Gabry Ponte. Lo so, vi fa troppa paura il “Got mit uns” rievocato da Trump per vedere il “Got mit tunz” che risveglia i veri mostri di questo secolo.
Però state al gioco, smettete per un attimo di dar retta a Gramellini e cambiate prospettiva: lasciate perdere il pagliaccio che balla dietro i Village People e concentratevi su quelli che si esaltano, di qua e di là dall’oceano. Guardate chi sono i più entusiasti tra le persone che conoscete personalmente, e chiedetevi: quanti anni ha? Come si vestiva a 15 anni? Dove andava a ballare? Qual è la probabilità che il varicocele che gli hanno operato l’anno scorso sia causato da anni di cavallo stretto dei Levi’s? E quando tutte le risposte confluiranno inesorabilmente verso la pista del Number One, fatevi la domanda definitiva: chi è il responsabile dell’ascesa di Trump, Italo Balbo o Claudio Cecchetto?






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