
Il tempo è relativo. Lo diceva già Boccaccio tra le righe del suo Decameron, parecchi secoli prima di quel premio Nobel di cui ricordiamo solo le simpatiche linguacce, la svogliatezza alle elementari e le pubblicità dell’Eurospin, ma non mi dilungherò in questo parallelo perché non vorrei turbare il sonno di Gramellini. Il tempo è relativo, dicevo, e lo è ancora di più oggi. Oggi che per mezz’ora di coda alla posta ci sentiamo come Penelope a Itaca. Oggi che proviamo lacerante nostalgia per le olimpiadi finite l’altroieri. Oggi che aprire Twitter dopo un paio di giorni di assenza regala sensazioni che Alan Parrish al ritorno da Jumanji se le sogna. Oggi che vi faccio la seguente domanda: vi ricordate di nove anni fa?
Dura, eh? Lo so. Vi faccio un riassunto: nove anni fa era il 2015. Nonostante le rosee aspettative di Robert Zemeckis, le automobili a fusione controllata e il volopattino non erano ancora stati prodotti (o forse sì e il governo americano ci tiene all’oscuro, dovrei chiedere a Borghi). Il Presidente del Consiglio in Italia era Matteo Renzi, fresco di un bingo elettorale alle europee destinato a sgonfiarsi più velocemente di Malgioglio di fronte a un tailleur in tinta unita. Il Covid era ancora lungi dal farci acquistare quintali di lievito e cantare inni dai balconi, Maradona e Battiato erano vivi e vegeti, mentre Berlusconi sembrava ancora il peggiore spauracchio politico di questo paese, nonostante l’incipiente ascesa meloniana e le trovate mirabolanti di un comico genovese affetto da gastrite e sudorazione eccessiva.
Nove anni fa non serviva il passaporto per andare in Inghilterra, Putin era per tutti poco più di un tamarro con la tolleranza all’alcol di un seienne friulano, l’idea di affidare la valigetta atomica a Donald Trump e ai suoi capelli fluorescenti stava nei repertori dei comici invece che sulle pagine dei giornali, Chef Rubio era un simpatico gigione che pubblicizzava il colesterolo in TV, TikTok era esclusivamente un’onomatopea e Vannacci mangiava sabbia trastullandosi con i suoi commilitoni nella tenda da campo. Ma soprattutto, nove anni fa, Lenny Kravitz scopava.
Lo so, lo so che la notizia ormai è vecchia, il trend è passato, e comunque vi sembra una nota di colore buona giusto per un po’ di passeggera ilarità. Lo so, ma con i leghisti intenti a far tornare di moda la pertosse, un ex generale della Folgore che minaccia di smutandarsi in diretta, due guerre estenuanti alle porte dell’occidente e il tragico calo di prestazione degli aspiranti stragisti a stelle e strisce, la novennale astinenza sessuale di Lenny Kravitz è di gran lunga l’argomento più importante che dovremmo affrontare come società. Siamo in balìa degli eventi, e proprio ora che le manovre politiche post-elezioni europee stanno prendendo forma e gli americani sono indecisi se incoronare la prima donna nera della loro storia o per la seconda volta il tizio che dava indicazioni a Macaulay Culkin, ora che Jennifer Lopez e Ben Affleck stanno di nuovo divorziando lasciandoci nell’incertezza più totale, ciò di cui abbiamo davvero bisogno sono convincimenti solidi quanto gli addominali di un musicista sessantenne con la fissa per i pantaloni di pelle.
Vi vedo storcere il naso, ma se in questo momento, come me, osservate il mondo e provate una profonda desolazione nel guardare il vuoto di idee che permea ogni ganglio della vita quotidiana e sentite il bisogno di un ritorno a questioni di principio, a una politica seria, a qualcosa che vada oltre i patetici trucchi da consenso labile, se anche voi percepite l’abisso lasciato dall’abbandono delle grandi ideologie, allora è proprio alle mutande di Lenny Kravitz che dovreste guardare.
Ok, l’ho presa un po’ alta, ma cosa c’è di più profondamente ideologico del dare per assodato che i musicisti fighi scopino come ricci sempre e comunque? Money for nothing and chicks for free, va bene, ma da qualche parte quella frase Mark Knopfler deve pur averla presa, e solo chi si ostina a sventolare libri che non ha capito può pensare che le questioni importanti siano slegate dalle facezie che riempiono le rubriche di gossip. Per le mutande di Lenny Kravitz passa una questione identitaria, forse l’unica vera questione identitaria in mezzo a tanti deliri da clickbaiting forsennato: se le rockstar non trombano più, come ci consoliamo noi, che con la condizione di non-rockstar abbiamo giustificato le rade e blande scopate di una vita? Che fine fanno i dogmi di una società sessualizzata fino al midollo se quelli che potrebbero usarlo lo tengono nei pantaloni? Come possiamo occuparci della casta se i rocker diventano casti?
Questo è il punto in cui non capite la direzione del ragionamento e vi lanciate in interessantissime disamine sul perché Lenny Kravitz non può essere definito rocker, perché il rock è tutt’altro, e i Led Zeppelin, e Keith Richards, e vuoi mettere Jimi Hendrix e tutto il resto. Fatto? Ok, ora mettete via la Smemo e cercate di stare al passo.
Dell’astinenza di Lenny non se n’è parlato e non se ne parla a sufficienza – forse perché i poteri forti cercano di insabbiare la cosa o forse perché nessuno ha pensato di affibbiargli un neologismo inglese, ormai unico vero requisito per lo status di “argomento di dibattito” – eppure è lì, tra le pieghe di quell’elastico da mutande poco sollecitato, che risiedono la nostra profonda crisi e le nostre divisioni. La balla dell’economia reale ci ha tolto la lotta di classe, le compagnie low cost ci hanno tolto le vacanze di massa in riviera, e infine i social ci hanno tolto il confine tra il gin tonic e le assemblee costituenti; l’ultimo motivo di aggregazione, l’ultimo vessillo rimasto a circoscrivere il nostro senso di comunità era quel “sesso, droga e rock’n’roll” di cui in realtà ci è sempre e soltanto interessato il primo concetto.
Poi, all’improvviso, Lenny “FaiDiMeQuelloCheVuoi” Kravitz se ne esce, nel mezzo di un’intervista per il Guardian, con questa trovata della castità come una Claudia Koll qualsiasi, fregandosene di tutto quel progresso riguardo a diritti e libertà sessuali che ci raccontiamo sia merito di politici idealisti e battaglie civili, quando invece è sempre dipeso dall’idolatria per le rockstar. Non guardatemi così: ci si straccia le vesti più oggi per i nudi di Elodie che 40 anni fa per le abitudini berlinesi di David Bowie, crea più pruriti reazionari un fotogramma di Mengoni in gonna che l’intera videografia dei Culture Club, e hanno sensibilizzato più l’AIDS di Freddie Mercury e la volta in cui Piero Pelù ha messo un preservativo sul microfono di Mollica che tutte le repliche di quella pubblicità progresso sul papilloma virus con la furbissima scelta comunicativa dell’incipit “Tutte queste persone si sbagliano”.
L’invidia per il sesso delle rockstar, come per i lussi dei divi del cinema o le brioches di Maria Antonietta, è un collante sociale: scopiamo tutti meno di Sting, di conseguenza non bisticciamo tra noi misurandoci il conteggio degli amplessi a vicenda, restiamo ancorati alla realtà e possiamo concentrarci sulle questioni importanti. Non è nemmeno necessario che tutto quel sesso tantrico e selvaggio sia poi vero, è sufficiente mantenerne viva l’illusione, come fa Mick Jagger sfornando un figlio ogni tot anni pur avendo l’età dei datteri; se però quel guastafeste di Lenny Kravitz – che a differenza di nonno Jagger smuove ancora ormoni con estrema facilità – dichiara urbi et orbi di aver mandato in pensione l’origine della nostra invidia, il castello crolla e l’uomo esce dal personaggio, eliminando istantaneamente la distanza percepita.
Se non scopa, Lenny non è più irraggiungibile (lo sarebbe per il talento, ma del talento non frega più nulla a nessuno da quando esistono i filtri Instagram) e quindi il sesso, quel tipo di sesso, ci illudiamo sia roba che riguardi anche noi, lo trasformiamo in una questione personale e sociale di cui dibattere, finanche nei particolari più scabrosi e morbosi, che inevitabilmente finiscono per dividerci laddove lo status di non-rockstar ci univa. La realtà, però, è che tra il letto di Lenny Kravitz e il nostro non c’è nessun vaso comunicante, far sparire le groupie dal suo non le fa certo comparire nel nostro, e noi continueremo a contare gli amplessi sulle dita delle mani senza più nemmeno la scusa di non essere divi della musica.
L’ovvia conseguenza sociale è che con la castità del rocker si perde un aspetto centrale per la natura stessa della rockstar: il concetto di groupie; concetto che nei decenni ha rappresentato una rivendicazione di libertà sessuale in faccia ai bigotti più incisiva di qualsiasi bandiera a righe sventolata al pride, mentre oggi – in quel coacervo di frustrazione e invidia che sono i social – verrebbe (viene) condannato tanto dal vecchio moralismo quanto da quello nuovo, troppo preso a fingere di non vedere differenze con lo star system per accorgersi che, all’atto pratico, la causa femminista deve ai pompini rivendicati da Courtney Love più di quanto debba a chi scrive “attivista digitale” nella bio di Twitter.
Secondo un rapporto dell’ONU il 40% delle donne oggi ha meno potere di decidere sul proprio corpo rispetto al 2015, e diamo la colpa al neofascismo che avanza se volete, ai fondamentalismi religiosi che rialzano la testa, a Pillon, a Trump, agli obiettori di coscienza e a tutti gli altri, ma intanto il paragone è lì da vedere, nero su bianco: nel 2015, quando Kravitz ancora si sfilava le mutande per diletto, le donne erano più libere di fare ciò che desideravano con il loro corpo. Oggi, in mancanza di rockstar ligie al proprio stereotipo, le libertà sessuali si erodono, i castelli crollano, e a calarsi le braghe con entusiasmo rimane soltanto Vannacci.
Lenny, so che mi stai leggendo: leva quei pantaloni di pelle e salvaci da questo incubo. Sei la nostra unica speranza.





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