
È giunto il momento di riprendere con i dilemmi satirici, a distanza di mesi dall’esordio di questa… Come la vogliamo chiamare? Rubrica? Diciamo rubrica. Non che l’avessi pianificato, anzi, fino a ieri sera avevo tutt’altro programma e se non fosse per un bicchiere rotto starei probabilmente parlando delle nuove mirabolanti avventure dei membri del governo, del cane di Alain Delon o dei vestiti nuovi della sinistra, ma andiamo con ordine. Essendo questo a tutti gli effetti l’episodio 1 – quello dell’episodio zero è un trucco che ho imparato da Di Maio. Ve lo ricordate Di Maio? Quanti ricordi! – mi sembra doveroso ricapitolare cosa sono i Dilemmi satirici.
L’idea è di approfondire in ognuno di questi episodi una serie di dubbi, domande o teorie più o meno sensate riguardo alla satira; non che voglia insegnare nulla a nessuno, né tantomeno proporre regole auree, anche perché sono nato troppo lontano da Sant’Arcangelo di Romagna per sentirmene in diritto. Mi limiterò a riportare in ogni episodio il frutto di una qualche mia elucubrazione riguardo la satira, il suo stato di salute e le sue regole (sempre che esistano) con nessun obiettivo in particolare se non offrire uno spunto a chi come me, nel suo piccolo, prova a cimentarsi in quest’arte tanto bistrattata e umiliata da tutti i Pio e Amedeo del mondo, per non parlare dei Senatori. La speranza è che ne possa nascere un dibattito i cui contributi sono ben accetti sotto ogni forma, quindi sentitevi liberi di intervenire come volete.
Ma bando alle ciance, dopo essermi chiesto, senza ovviamente ottenere risposta, se la satira esista davvero, oggi vorrei dare per scontato che esista e provare a esporre una teoria – si fa per dire – sul ruolo, o perlomeno su uno dei tanti, che la satira può occupare. Forse (probabilmente) è una stupidaggine, ma ho questa similitudine in testa da ore e che viene da una sorta di folgorazione che ho avuto grazie alle mie mani di merda e ad un bicchiere in caduta libera. Tutto questo pezzo che state leggendo è nato in un unico e brevissimo lampo mentale, e non lo dico per vantarmi: lo dico per avvertirvi che, qualora vi sembrasse una narrazione estremamente lunga di qualcosa che potevo riassumere in 10 parole, avete assolutamente ragione.
Le mie mani di merda, dicevamo. Ad un’ora imprecisata della scorsa notte mi sono alzato perché la TV era rimasta accesa avevo sentito un rumore strano in garage avevo sete, sono andato in cucina – frantumandomi le articolazioni contro oggetti contundenti di vario genere per non incorrere nel reato di illuminazione notturna – e avendo io la grazia di Giuliano Ferrara in un negozio di cristalli, con un movimento scomposto ho urtato il bicchiere che avevo saggiamente poggiato a un centimetro dall’angolo del piano. Con la prontezza di riflessi e la precisione che mi contraddistinguono alle 4 di mattina senza occhiali, ho cercato di salvarlo dal suo tragico destino, e per un attimo ho creduto di farcela. Solo per un attimo, tra il primo rimbalzo a terra e il secondo e definitivo impatto.
Il bicchiere era destinato a frantumarsi, su questo non ci piove. Lo sapeva lui, lo sapevo io, lo sapeva il comodino su cui stazionavano i miei occhiali, lo sapevano il mio stato comatoso e i miei occhi incispati. Lo sapevano tutti. Eppure, nelle nebbie della semicoscienza l’unico ricordo davvero nitido è quell’istante di mezzo in cui il bicchiere tocca terra, si rialza e rimane in sospensione per un secondo, forse meno, prima dell’inevitabile; un secondo nel quale è contemporaneamente integro e rotto, salvo e condannato, vivo e morto come il gatto di Schrödinger; un secondo irreale su cui forse Nolan potrebbe scrivere una sceneggiatura distopica di tre ore; un secondo in cui il realismo della prossima frantumazione, l’illusione di poter ancora intervenire e il sollievo del primo impatto superato indenne si mescolano in una sensazione agrodolce.
Risata verde, la chiamavano i tedeschi, anche se forse Karl Kraus aveva avuto uno spunto migliore di qualche vetro dell’Ikea infranto al buio, comunque non sono qui per accostarmi ai mostri sacri. Ho provato quella strana sensazione mista e straniante, dicevo, e mi è parso il riassunto del perché io senta il bisogno di fare battute sulle tragedie mentre sono ancora calde, ironizzare sul degrado, ridere di una realtà che fa piangere, passare contemporaneamente per utopista e cinico insensibile, per quello che cita Nietzsche per sfottere Salvini e fa battute macabre al funerale della nonna. Ecco, l’ho realizzato meno di 12 ore fa, ma la mia teoria è che la natura della satira – o quantomeno ciò che la distingue dalla comicità – sia rincorrere forsennatamente quel momento lì: il rimbalzo del bicchiere.
Non si tratta solo di ridere per attenuare una disgrazia o di esorcizzare volontariamente una situazione triste: Totò e Chaplin esorcizzavano le tragedie umane come Bill Hicks o Richard Pryor non avrebbero mai potuto fare, e non certo perché mancassero di talento. È che ciò che facevano Hicks e Pryor era di una natura completamente diversa da ciò che facevano Totò e Chaplin (prendo ad esempio questi 4 perché sono morti e non possono farmi causa per diffamazione per le mie teorie bislacche, voi metteteci i nomi che vi pare) a prescindere dalle differenze storiche o di contesto sociale.
Non voglio fare il noioso discorso della satira che sarebbe più nobile perché attacca il potere frontalmente, non si fa imbrigliare e altre mirabolanti teorie su giullari sfacciati e sovrani dotati di autoironia, anzi, sostengo l’esatto contrario: è molto più nobile costruire volontariamente un impianto comico equilibrato, una parodia a misura di tutti, uno stile canzonatorio in cui la critica al potere si colga tra le righe. È molto più nobile ammorbidire i toni schivando la censura che fare gli assolutisti per poi lamentarsi dei tagli. È molto più nobile perché nasce da un’intenzione razionale, strumentale a un’idea, mentre la satira si nutre di viscere e istinti irrazionali, ed è scabrosa come è scabroso il desiderio di rivivere quel secondo di risata verde ad ogni occasione, a costo di calpestare sensibilità vere o farlocche, di ricevere quintali di insulti o anatemi dei moralisti, di sembrare roba da clown ai filosofi snob e roba da nichilisti musoni ai fan di Boldi.
La comicità ride del bicchiere rotto oppure del pericolo scampato, ironizza a posteriori nel bene e nel male con una direzione ben precisa, idealista, votata a lasciare un segno, e per questo preoccupata che sia il segno giusto, mentre la satira dipende da quel tempo di rimbalzo come un tossico dalla dose di eroina: è l’unico istante in cui si sente viva, senza ratio, senza misura, con tutte le contraddizioni fuse insieme, tanto il sorriso da ebete mentre la botta il bicchiere sale quanto il pessimismo cosmico mentre inevitabilmente cala verso lo sfascio.
Un attimo prima che il bicchiere rimbalzi non c’è satira, e così durante la raccolta dei cocci. Quelli sono i tempi della comicità, delle risate presentabili a debita distanza dalle tragedie, di Totò, di Chaplin, della costruzione razionale di un racconto in cui il rimbalzo nemmeno viene nominato, perché a che serve quando la storia è quella di un bicchiere che casca e si rompe? Ecco, il ruolo, o uno dei ruoli della satira è – forse, ma potrei cambiare idea tra 10 minuti – quello di interessarsi di quel tempo sospeso inesistente a posteriori, di quel luogo indefinito in cui si è sia vivi che morti per così poco tempo da potersene sbattere delle convenzioni, del prima e del dopo, di chi si sente offeso in nome di tutti i bicchieri maltrattati e di quelli che pensano solo al colore del bicchiere, ma se riesci a cogliere quel momento, quella dose di distopia irreale a caldo, ti darà una botta di vita e in fin dei conti sarà l’unica cosa a cui ripenserai tra le nebbie della semicoscienza, mentre ti sforzerai inutilmente di ricordare che forma avesse il bicchiere, con quale mano l’hai fatto cadere, se il frigo era aperto e se poi alla fine hai bevuto o sei solo tornato a letto con un tarlo nella testa.
Lo so, ‘sta cosa mi ha preso la mano ed è diventata seriosa e ammorbante, non so nemmeno se ciò che ho appena scritto abbia realmente senso, ma vi posso assicurare che per un attimo nella mia testa è stato chiarissimo e vagamente divertente. Non so quando ci sarà un nuovo episodio di questa rubrica, ma sono sicuro che mi piacerebbe sapere da chi è arrivato fin qui che ne pensa di questa sottospecie di teoria, quindi chiudo con l’invito a non trattenervi, ampliare la discussione, lasciare insulti o quel che volete, e se vi va anche contribuire ai Dilemmi satirici proponendone uno vostro.
Ora scusate, devo andare all’Ikea, sono stufo di bere dalle mani.





Scrivi una risposta a Lozirion Cancella risposta