ImmedesiMarghe

La lente del sestessismo e l’astrofisica che è dentro di te, e però è sbagliata

Questa non è la storia di un brutto film; non è la storia dell’ennesimo sceneggiato Rai che pure se lo chiami Rai Fiction rimane uno sceneggiato, inspiegabilmente a colori; non è la storia di come i toscani abbiano devastato questo paese, e di come la devastazione stia proseguendo per bocca dei non toscani che esagerano con le consonanti aspirate; non è la storia della desolazione nel vedere che gli americani hanno Oliver Stone e noi Giulio Base, e non è nemmeno la storia del perché preferirei morire democristiano che fan di Beppe Fiorello e dei suoi cloni, di qualsiasi sesso siano. Questa è la storia di un tarlo.

Quando ho avuto l’idea di scrivere questo pezzo non avevo ancora visto “Margherita delle stelle”, e non è detto che ora che lo state leggendo io l’abbia poi vista tutta, ‘sta ora e mezza di sceneggiato che dopo i primi 3 minuti fa sentire il latte alle ginocchia e la voglia gridare a ‘sta benedetta ragazza che per fare la cadenza toscana non serve usare proprio tutta quell’aria. Ho pensato di scrivere dopo aver letto un articolo di non ricordo quale giornale, su un’intervista che la Capotondi ha dato a non ricordo quale conduttrice di non ricordo quale programma pomeridiano della Rai (era la Rai? Non ricordo, ma suppongo di sì).

L’intervista in questione mi è saltata all’occhio non perché io segua le vicende che intrattengono le casalinghe italiane durante la merenda, ma perché una frase estrapolata da quell’intervista ha smosso le fregole dell’internet, al solito, per le ragioni più sceme. Parlando del ruolo di protagonista nel film su Margherita Hack, la Capotondi ha detto “L’unico suo aspetto che non sono riuscita a interpretare è l’ateismo”, e non vi sto nemmeno a spiegare che in un battito di ciglia è diventata una questione di ingerenza della chiesa, stato laico, crocifissi a scuola, radici cristiane contro civiltà moderna e tutte cose.

I più lucidi – e per “lucidi” intendo in grado di distinguere Cristiana Capotondi da Savonarola – hanno avuto almeno la contezza di ironizzare sul significato di “recitare”, che è diventare altro da sé e che, ragazza mia, sarebbe il tuo mestiere, se non lo sai fare stai a casa (non ho scritto “in cucina”, ma voi lo avete pensato, vergognatevi).

Nessuno però che abbia sottolineato che “interpretare l’ateismo” è un concetto senza alcun senso. Sarebbe come dire che Terence Hill “interpreta la fede” quando veste i panni di Don Matteo. No, interpreta un prete. È il prete che ha la fede, non Terence Hill, come era Stephen Hawking ad avere la SLA e non Eddie Redmayne, che interpretava un astrofisico e non la sua malattia. Ve lo immaginate Anthony Hopkins che dice “Mi sono concentrato sull’interpretazione del cannibalismo”? O Morgan Freeman che dice “Interpretare l’onnipotenza è quello che mi riesce meglio”? E allora perché mai la Capotondi ha detto una stronzata del genere? Per saperlo basta andarsi a vedere l’intervista – o leggerne qualche estratto, se siete deboli di stomaco – e diventa evidente che, per quando io mi diverta a prendermi gioco dei devoti che non riescono a concepire la vita di chi non ha amici invisibili fissati con la masturbazione e la numerologia, il tarlo che mi picchia in testa ha ragione: qui il problema è un altro.

Il problema è che quella frase è perfettamente in linea col contesto attuale, e se c’è qualcosa che la Capotondi – parlandone da vertebrata – riesce perfettamente a interpretare, è l’idiozia della cultura del sé che ormai pervade ogni angolo di un’epoca cretina in cui “empowerment” è una parola che esiste davvero. Non c’è nulla nel modo in cui la Capotondi racconta il film e il suo ruolo che non sia pomposamente egoriferito: inizia dicendo di aver rifiutato offerte intriganti “pur di scegliere ruoli che mi assomigliassero”; continua asserendo che c’è chi recita per diventare altro da sé ma lei no: lei lo fa per capire meglio sé stessa; conclude dicendo di aver sentito, con un’astrofisica atea cresciuta in epoca fascista, una “forte affinità”, perché era “una donna libera e fuori dal suo tempo” (traduzione: “come me, guardate come sono donna libera e forte e anticonformista, anch’io una volta sono stata cacciata da scuola per aver parlato male del duce, metaforicamente. No, non guardate la Hack, concentratevi su di me, sono quella non atea”).

Riassumendo: scegli ruoli che ti assomigliano per capire la tua essenza e osservi un personaggio enorme del ‘900 italiano concentrandoti sugli aspetti che fanno il paio coi tuoi. E l’ateismo? Vabbè, quello non ce l’hai, lo lasciamo da parte; la Hack ne parlava in continuazione, ci scriveva libri, partecipava ad incontri sul tema e lo considerava elemento essenziale del suo pensiero, ma cosa sarà mai in confronto alle affinità che hai percepito tu, solo tu, sempre tu, anche tu, nient’altro che tu, proprio tu.

In un’epoca meno dissociata, tutto ciò si sarebbe chiamato “disturbo narcisistico della personalità”, ma oggi no. Oggi le uniche patologie che interessano sono quelle autodiagnosticate e con acronimi inglesi buone per le bio sui social. Oggi è la lente del sé l’unica che conta per inquadrare il mondo, e se le tue aspettative sulla realtà non sono soddisfatte è la realtà ad essere sbagliata, mica tu a essere sfocato osservatore. Oggi all’attrice impegnata a essere sé stessa non puoi far notare che accettare solo ruoli che le somigliano pare più pigrizia che ricerca interiore. Oggi la definizione di “donna libera” si usa per la vita di Margherita Hack quanto per le ascelle non depilate di una tizia famosa perché stava col cantante dei Maneskin, e se fai notare la sproporzione è subito patriarcato o reati equivalenti.

Oggi ci sono fragolina74 e pazzainter1908 che annunciano urbi et orbi di aver bloccato il Papa su Twitter, perché le prese di posizione del capo religioso più influente del pianeta non sono di loro gradimento, e io che pensavo che quello coi deliri di onnipotenza fosse Morgan. Oggi dire che Hitler era un pazzo esaltato ti può causare insulti dagli ultrà vegani, che chi se ne frega se quello ha sterminato milioni di persone e trascinato il mondo nell’abisso, era vegano proprio come me, per cui era meraviglioso, guardami, non sono meraviglioso nella mia sensibilità? Oggi se uno si sente in sintonia con Napoleone perché ha un bicorno di feltro comprato su Vinted, o perché soffre di gastrite o è stato in ferie a Sant’Elena, mica gli puoi dare del matto, lo devi applaudire per il coraggio di essere sé stesso sestessamente, e magari costruire un bagno apposito per imperatori.

Oggi è il personaggio che deve essere degno dell’attore e avere peculiarità in linea con quelle di chi le deve interpretare, mica il contrario. Sennò a chi diavolo li vendiamo tutti ‘sti libri sull’autodeterminazione e i corsi di self-awareness, qualsiasi cosa significhi?

È la storia a doversi piegare al bisogno di immedesimazione del pubblico, che così può dire “ti capisco, è successo anche a me, uguale uguale”. E infatti i primi minuti di “Margherita delle stelle” sono una sequenza di scene e dialoghi didascalici per rastrellare consenso prima del primo stacco pubblicitario. C’è la quota di antifascismo da Baci Perugina con il babbo fiero del licenziamento che spiega di aver rifiutato “una tessera che dice che penso quello che vogliono gli altri, invece io voglio pensare quello che voglio io” e la piccola Margherita che ovviamente risponde “Anch’io voglio pensare quello che voglio io”; c’è la quota vegan con la battuta sul non poter risparmiare sulla carne “essendo vegetariani”, perché si sa, è normale che in una famiglia vegetariana le battute sulla carne necessitino della specifica “siccome siamo vegetariani”, altrimenti non si ride; e poi la quota anticonformista col pallone da calcio preferito ai vestitini, la quota emarginati che vede la piccola Marghe in cima a un tronco mentre gli altri bambini giocano al parco, la quota disobbedienza con la mamma che invece di riprenderla le dice sottovoce di correre lo stesso per i corridoi del museo ma senza farsi beccare dal custode cattivo, e altre mirabolanti dimostrazioni che Woody Allen in Rai lo metterebbero a fare il barbiere.

Insomma, io vorrei tanto bersagliare la Capotondi per quell’uscita ridicola sull’ateismo, ma ho questo tarlo nella testa che continua a suggerirmi che non è colpa sua. Più rileggo l’intervista e più mi convinco che non ha fatto nient’altro che assecondare il pubblico più cretino che sia mai esistito: quello che vuole rivedersi nell’arte invece che farsi affascinare; quello che ha bisogno di credere che il proprio commento positivo o negativo su Instagram cambi la giornata a Johnny Depp; quello che guarda i film per commentarli su Twitter scrivendo “Troppo io in questa scena, ahahah”, e giù tutti a commentare “Cioè, no, adoro, anch’io uguale” con tantissimi punti esclamativi.

Non è colpa della Capotondi se gli spettatori vogliono essere rincuorati che quel grande attore che ha fatto una prova magistrale non è poi tanto diverso da loro, non è più talentuoso, più esperto, più bravo, macché, è che quel personaggio gli somigliava tantissimo. Anche tu puoi essere Al Pacino in 4 semplici passi, devi solo trovare il personaggio giusto, credere in te stesso, ascoltare musica indiana e comprare il nostro corso online “Vincere l’oscar senza rinunciare al burraco del venerdì”.

Volevo sfotterti ma non è colpa tua, Cristiana, è un periodo così: ti chiedi quasi quasi e miagoli nel buio, ma le risposte non le devi cercare fuori. L’astrofisica è dentro di te. E però è sbagliata.


Una replica a “ImmedesiMarghe”

  1. Avatar Messa a fuoco – Plautocrazia

    […] è impegno etico!” (sottotitolo: che cazzo di domanda è? Con chi credi di parlare, con Cristiana Capotondi?). Racconta che da piccolo in colonia era il bambino numero 287, e che ancora oggi usa quel numero […]

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