
DISCLAIMER: il seguente pezzo è pensato a caldo, scritto tiepido e pubblicato a freddo, è frutto di ripensamenti di cui dubiterò un secondo dopo averlo pubblicato, insinua dubbi, elargisce fastidio per sé stessi e forse dovrebbe autodistruggersi come i messaggi dell'Ispettore Gadget. Leggerlo potrebbe convincervi di aver capito qualcosa che io stesso negherò di aver affermato. Proseguite a vostro rischio e pericolo.
Scegliete la vita, scegliete un lavoro, scegliete la famiglia, scegliete un genere musicale del cazzo, scegliete etichette, idoli, tendenze e modi di dire codificati. Scegliete i quiz in replica, i cruciverba facilitati e le soluzioni a pagina 46, scegliete il pay-to-win, scegliete una foto profilo, scegliete una citazione, scegliete i musei in offerta e le mostre sponsorizzate, scegliete un riassunto di tre frasi da Wikipedia e ricopritelo con una sufficienza del cazzo, scegliete il best seller e chiedetevi chi cacchio siete la domenica mattina, scegliete di avvelenarvi il fegato e lo spirito con gli hashtag mentre sottolineate di saperne più del vostro cugino scemo. Alla fine scegliete di accontentarvi, di chiudervi in una squallida zona di comfort ridotti a motivo di imbarazzo per gli intellettuali aperti al mondo che giuravate di essere quando il mondo vi sembrava più comprensibile. Scegliete la sicumera, scegliete la vita. Ma perché dovrei fare una cosa così? Io ho scelto di non scegliere la vita, ho scelto qualcos’altro. Le ragioni? Non ci sono ragioni. Chi ha bisogno di ragioni quando esiste Björk?
No, non mi sono dato all’eroina, è solo che l’arte mi fa lo stesso effetto della teoria sulla vita di Sick Boy: l’unica cosa che chiarisce è che c’è altro da chiarire.
Sono le 22:30 del 12 settembre, ad Assago è appena finito il concerto – chiamarlo “concerto” è riduttivo, ma non sono qui per una recensione – e chiacchierando con il ragazzo seduto di fianco a me, a dir poco entusiasta di ciò a cui ha appena assistito, scopro che aveva acquistato il biglietto la sera stessa e che neppure sapeva chi fosse Björk.
Segue dialogo tra le mie molteplici personalità:
- Ma come fa un ragazzo di 30 anni a non sapere chi è Björk?
- Però, dai, è bello vedere che c’è ancora qualcuno che dimostra un po’ di curiosità.
- Sì, ma senza le basi cosa potrà aver percepito di uno spettacolo così complesso? Le luci e i colori?
- Probabilmente. Come quelli che alle mostre d’arte stanno davanti ai quadri aspettando la folgorazione.
- E noi, che pensiamo di avere le basi, non siamo stati comunque un’ora a fissare una tela?
- Forse, però…
- Però cosa?
- Ma che ne so! Io ero venuto per la birra e voi state qui a fare i filosofi, lasciatemi dormire, cazzo!
Sono le 10:30 del 13 settembre, e da circa dodici ore mi sto domandando se ciò a cui ho assistito ieri sera l’abbia veramente capito. Di più: mi sto domandando cos’era ciò a cui ho assistito, perché non sono sicuro di saperlo. Di più: mi sto domandando cosa ci facessi io lì, sui seggiolini del Forum, a guardare qualcosa che il giorno dopo nemmeno so descrivere. C’erano le immagini evocative, certo, c’era il riconnettersi con la natura, certo, c’era il mondo che si muove armonioso e noi che fatichiamo a seguirne l’onda, sì, c’erano flauti a pioggia e strumenti a dir poco originali, ma io, lì, fermo a guardare il palco come Mark Renton il treno, che diavolo ci facevo?
Sono le 10:30 del 14 settembre, ho ripensato a quell’intervista che avevo letto anni fa in cui un critico d’arte sosteneva che la maggior parte della gente va alle mostre per mettersi davanti a ogni quadro, guardarlo senza sapere su quali dettagli concentrarsi, contare i secondi e poi passare a quello successivo; se le gallerie d’arte mescolassero continuamente l’ordine dei quadri, quasi nessuno coglierebbe la differenza. Continuo a pensare che abbia ragione, solo che all’epoca ero convinto di far parte della minoranza che le mostre le capisce, mentre ora che sono passati due giorni dal concerto di Björk e tra altri due giorni vedrò un concerto di genere completamente diverso, mi rendo conto di fare esattamente quello: guardare, aspettare, passare al prossimo.
Sono le 10:30 del 15 settembre, ho scritto questo pezzo che sembra non voler trovare una quadra, volevo dargli una veste satirica e l’idea di rivisitare il monologo iniziale di Trainspotting mi sembrava perfetta, ma sono diventato vittima della mia stessa metafora e non riesco a pensare ad altro. Mi chiudo nella stanza e decido di restarci finché non ho finito di scrivere. Il vantaggio è che non c’è di mezzo l’eroina, lo svantaggio è che non sono Ewan McGregor, e la consolazione è l’assenza di quell’inguardabile carta da parati con i treni, che immagino in Italia sia illegale per rispetto del buon gusto, o quantomeno dovrebbe esserlo. Per il resto ho le stesse paranoie di Mark Renton.
Come Mark vedo cose che mi sembra di capire ma non capisco mai davvero, le osservo come i treni alla stazione senza sapere se sia il treno ad andare avanti o la stazione ad andare indietro, provo pena per quelli ormai irrecuperabili come Spud e spero di non ridurmi mai così, disprezzo tutti i Begbie del mondo per la loro ignoranza ma li invidio perché la prendono come viene cavalcando l’onda, e poi c’è quel maledetto Sick Boy, che pur di farmi pesare la mia inadeguatezza – so che lo fa apposta – si traveste da Björk e fa un diavolo di concerto capolavoro, e io lo so che è un capolavoro, come lo sa chiunque conti i secondi mentre guarda un quadro di Caravaggio, ma so anche di non coglierlo del tutto, che mi manca sempre un pezzetto, come quando vai in ferramenta per comprare un pezzo di ricambio e sai che prima o poi il negoziante ti farà una domanda specifica a cui non sai rispondere.
Perché i flauti erano sette? Quanto LSD ha preso lo stilista che ha vestito Björk? Che ci faceva una casetta di cartongesso sul palco? Erano le immagini floreali ad andare a tempo con la musica o la musica a seguire il ritmo della natura? Non lo so, né tantomeno so che diavolo fosse quella specie di xilofono ad acqua fatto di ciotole galleggianti. Sono andato a vedere Björk sapendo chi era Björk e ne sono uscito senza sapere chi sono io, se sono quello in posa col cronometro davanti ai quadri degli uffizi o quello che si fa tutte queste domande nel letto senza prendere sonno mentre Begbie russa come un trattore. Chissà se il ragazzo che stava di fianco a me si fa le stesse domande; chissà se ne ha scritto da qualche parte; chissà come; chissà se a casa ha una carta da parati coi treni.
O forse è soltanto un momento. Forse è la botta del concerto che sta calando e la realtà si fa troppo largo, forse devo solo resistere fino alla prossima dose di musica dal vivo, dopotutto mancano solo un paio di giorni e poi si vedrà, in fondo posso smettere quando voglio, e probabilmente questo pezzo che ho scritto non ha minimamente senso.
Allora perché l’ho scritto? Potrei dare un milione di risposte tutte false. La verità è che sono paranoico, ma questo cambierà, io cambierò, è l’ultima volta che faccio cose come questa, metto la testa a posto, vado avanti, rigo dritto, scelgo la vita. Già adesso non vedo l’ora, diventerò esattamente come voi: il lavoro, la famiglia, il genere musicale del cazzo, i quiz in replica, i cruciverba facilitati e la benedetta pagina 46, pay-to-win, foto profilo, citazioni, idoli, modi di dire, musei in offerta, hashtag e cugino scemo, riassunti da Wikipedia, best seller, voto di pancia, telecronache sportive, scandali da un quarto d’ora, cover band, barzellette sconce con gli amici e asterischi nelle parolacce in pubblico, tanti maglioni, natale coi meme, pensione privata, condono fiscale, tirando avanti guardando la Rai, in attesa del giorno in cui morirai.






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