
Smilla è una inuit groenlandese orfana di madre che vive con il padre in una Danimarca che non sente sua. Ha una vita solitaria, alienata da tutti se non da un bambino, pure lui inuit, che sembra essere l’unico con cui condivide qualcosa, l’unico che la considera. Quando il bambino morirà per quello che tutti credono un incidente, Smilla sarà l’unica a capire che non è così, grazie alla sua profonda conoscenza della neve.
Se avete letto il romanzo di Peter Høeg o avete visto il film sapete come va a finire la storia, se non lo sapete colmate immediatamente la lacuna e tornate a leggermi più tardi. Perché “Il senso di Smilla per la neve” è un’ottima lettura e soprattutto perché non sono qui per parlare dell’odissea di Smilla, ma di quella molto più recente del martoriato Alain Elkann.
Il Nostro, ormai lo sanno anche i muri, ha viaggiato da Roma a Foggia su un treno in quella che lui stesso si ostina erroneamente a chiamare “prima classe”, forse per sublimare il fatto che gli aerei privati oggi li prende la Ferragni mentre lui, figlio di banchieri e industriali e imparentato con gli Agnelli, viaggia coi mezzi pagati dalle associazioni culturali che lo invitano. Incredulo della chiassosità dei giovani come Maria Antonietta della panificazione, una volta giunto a destinazione racconta la sua disavventura al direttore di Repubblica che pensa bene di mandare in stampa il racconto e regalare all’internet un paio di giorni di facilissima ironia.
Eppure in mezzo agli sfottò, le giustificazioni, le accuse e le dichiarazioni che piovono in queste ore da ogni dove, io penso al povero Alain Elkann.
Povero Alain, subissato dal sarcasmo dell’internet, photoshoppato nei meme tutti uguali, sfottuto dalle compagnie aeree e perfino accusato di classismo, solo per aver scritto un racconto sincero e narrato il disagio reale di chi – come Smilla – si ritrova in un luogo che non sente suo. Povero Alain, nato con la servitù a disposizione e finito in un’editoria che non assume nemmeno i correttori di bozze, e se lo fa li paga così poco da potersi permettere solo quelli impreparati a correggere un riferimento sbagliato a Proust. Povero Alain, massacrato per aver usato una terminologia poco convenzionale. Povero Alain, alienato da un mondo che liquida la questione con “poteva prendere il biglietto executive” mentre lui solo percepisce la verità, grazie al suo innato senso per la plebe.
“C’è un freddo straordinario, 18 gradi Celsius sotto zero, e nevica, e nella lingua che non è più la mia la neve è qanik, grossi cristalli quasi senza peso che cadono in grande quantità e coprono la terra con uno strato di bianco gelo polverizzato”. Questo è l’incipit del racconto di Smilla, e ditemi se non sembra stia osservando il mondo da un finestrino in movimento, con la stessa amara consapevolezza per un mondo a lui estraneo con cui Elkann esordisce nel suo racconto constatando “Non pensavo che si potesse ancora adoperare la parola ‘lanzichenecchi’ eppure mi sbagliavo”.
Come Smilla, anche Alain è alla vana ricerca di qualcosa che gli riporti alla mente un ambiente familiare, ma tutto ciò che ha intorno gli ricorda il suo essere fuori posto: i suoi chiassosi compagni di viaggio portano zaini e vestono sportivo, mentre lui ha una cartella di cuoio e indossa un abito di lino che ci tiene a sottolineare sia “stazzonato” per una questione più lessicale che di abbigliamento; loro smanettano perpetuamente sugli schermi dei loro smartphone, ascoltano musica in cuffia e usano parolacce, mentre lui estrae giornali in inglese, supplementi culturali italiani e libri in francese; loro parlano ad alta voce di ragazze da rimorchiare in spiaggia mentre lui scrive silenziosamente sul diario con una stilografica.
I lanzichenecchi non lo salutano, non lo coinvolgono nella conversazione, lo ignorano e in questo disinteresse pure un po’ maleducato per i vicini di vagone, Elkann percepisce ciò che il resto del mondo, occupato com’è a fare facile ironia populista sul riccone costretto a viaggiare con i poveracci, non coglie: il pericolo. Una sensazione di pericolo per la civiltà che gli altri viaggiatori non casinisti sembrano non avere o non voler esprimere – forse impotenti in quanto minoranza, abituati ai soprusi degli incivili o impauriti dalle braccia tatuate – mentre lui, incredulo, tende l’orecchio agli argomenti di discussione prevedibilmente banali dei giovani lanzi.
Oltre alle chiacchiere sul calcio, che origlia con un disgusto forse poco degno del suo cognome, l’alieno è costretto (è senso del dovere civico il suo, mica ficcanasismo) ad ascoltare discorsi su dove come e quando rimorchiare ragazze in spiaggia; discorsi che riporta nel suo resoconto trasformando i virgolettati in battute che sarebbero sembrate ridicole e antiquate pure in un copione di Happy Days, ma d’altra parte un alieno che legge Proust non può cedere al turpiloquio nemmeno nel citare frasi di altri ed è obbligato, suo malgrado, a tradurre le disinibizioni del volgo in espressioni presentabili.
D’un tratto l’analisi comportamentale dei giovani plebei viene interrotta dalla folgorante scoperta che, per andare da Roma a Foggia, il treno debba passare per Caserta e Benevento. Elkann sorride tra sé e sé, e ce lo racconta forse nel tentativo di integrarsi, di dire che sì, certo, veste in lino stazzonato, usa cartelle di cuoio, scrive con una stilografica, legge il New York Times in inglese e Proust in francese, ma anche lui può ignorare concetti basilari di geografia come gli appartenenti ai ceti inferiori. Sta quasi per accennarlo al suo vicino di posto, chiedendo se quello su cui viaggiano sia il treno giusto, tanto per rompere il ghiaccio con una battuta di spirito, ma la totale indifferenza del giovane al suo timido approccio lo fa desistere e ripiombare nell’alienazione.
Quest’ultimo muro di gomma è la goccia che fa traboccare il vaso: il povero Alain si chiude definitivamente e si tuffa nuovamente nelle confortevoli pagine di Proust, non prima di aver annotato l’ulteriore dettaglio dei cestini disordinatamente riempiti di lattine e cartacce dai lanzichenecchi che proseguono imperterriti nella loro scorribanda. Da questo momento rinuncia ad ogni tentativo di comunicazione e resta lì a rimuginare sul fatto di essere non solo parte di una minoranza impotente, ma del tutto trasparente a quei giovani così vicini e allo stesso tempo distanti da lui. Il treno arriva a Foggia, lui si alza, i lanzichenecchi non lo salutano perché non lo vedono, lui per ripicca non saluta loro e scende dal treno indispettito da cotanta maleducazione.
Una disavventura tragica raccontata in modo involontariamente comico, eppure io non me la sento di scaricare tutto addosso al povero Elkann. Perché se è vero che Alain sia indiscutibilmente più brillante conversatore che riuscito scrittore (ne sono certo senza averlo mai sentito parlare) è vero anche che quel pezzo non l’ha revisionato nessuno, e lo dico perché ho fiducia nel fatto che se qualcuno di Repubblica l’avesse letto – uno a caso, pure il ragazzo delle macchinette del caffè – quel pezzo così mal scritto non sarebbe mai andato in stampa.
Al netto delle battute – che sui social sono originali nei primi 5 minuti, poi suscitano più dejà-vu delle polpette della mensa al venerdì – la cosa più comica di tutta la questione non risiede nel racconto mal scritto, e nemmeno nelle acrobatiche legittimazioni non richieste del giornale, bensì nella convinzione dei polemisti indefessi. Li vedo straparlare di indegno classismo strappandosi le vesti, eppure so che se il protagonista di quel racconto fosse stato, che so, Corrado Augias, e i cosiddetti lanzichenecchi fossero stati leghisti diretti a un qualche raduno rutto-celtico, si ironizzerebbe sulla rozzezza dei secondi e non sul fastidio del primo. Li vedo parlare di classismo come se quel racconto fosse un appello a fare i treni con posti separati per i poveri invece che la versione scritta di uno sketch di Mr. Bean, con l’aggiunta di stazzonatura e scrittori classici. Li vedo parlare di classismo e mi vien da ridere a pensare che la lotta di classe passi per le urla sguaiate dei ragazzini in treno.
Dietro alle risate (forse in parte volute, ma non ci giurerei) che il pezzo di Elkann vi ha suscitato – insensibili che non siete altro – non c’è classismo, ma l’amara sofferenza del povero Alain: solo, circondato da persone che non capisce e con cui condivide la lingua ma non le espressioni gergali, costretto su quel sedile per 3 ore a guardare fuori dal finestrino scenari di città che non conosce, e che – come Smilla nel romanzo – si rifugia in ciò che lo riporta mentalmente a casa: gli abiti di lino, le parole forbite, la stilografica. Sul treno si parla di figa e lui legge Proust, immaginate quanto dolore poteva provare.
Povero Alain, maltrattato dai lanzichenecchi, trasparente agli occhi della plebe, alieno ai giovani cuccatori da spiaggia e adesso pure classista. Che poi a Foggia neanche ci voleva andare, gli avevano solo detto che si passa da Caserta e Benevento per andare in Groenlandia.






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