Ultimo posto fisso

Come i biografi sono diventati i nuovi impiegati delle poste

Prologo: correva l’anno 2013, i podcast e le web radio erano una nicchia da nerd che in confronto il circolo degli amanti di Kieslowski sembra il Coachella, i proprietari di piccole librerie indipendenti ridevano all’idea che avrebbero affidato la loro sopravvivenza ai video di ragazzine che recensiscono libri che non hanno letto e Netflix non aveva ancora intasato la rete di docu-serie tutte uguali che si parli dell’assassinio di Kennedy o del trauma di non trovare un cuscino morbido negli alberghi di Dubai.

Era il 2013, dicevo, e con la nostra web radio eravamo in diretta da una piccola libreria indipendente di Milano per un piccolo evento; Guido Meda – allora in uscita con “Il miglior tempo” – era ospite della serata e si prestò a una divertente intervista in uno sgabuzzino. Alla richiesta di parlarci della sua autobiografia lui rispose (virgolettato circa a memoria): “No, non è una biografia. Una biografia si fa per qualcuno di straordinario, Mandela, Bob Dylan, gente così. La mia è la storia di uno che ha vissuto delle cose che in qualche modo hanno come filo conduttore i motori; le biografie sono un’altra cosa”.

Piccolo salto in avanti: è il 2023 e Prime Video produce il documentario “Ultimo – Vivo coi sogni appesi” e io ripenso alle parole di Guido Meda; penso che gli anni che Ultimo ha oggi, 27, sono gli stessi che Mandela ha passato in prigione; penso che la prima biografia di Bob Dylan uscì quando “Highway 61 Revisited” era già un classico imprescindibile che chiunque giurava di non aver mai criticato o sottovalutato; penso che, sì, le biografie (e i documentari) sono un’altra cosa, e di certo non per colpa di Ultimo, che non è né Mandela né Dylan e nessuno sano di mente gli chiederebbe di esserlo.

Documentari e biografie hanno smesso di essere tali da quando i contenuti hanno ceduto il passo al racconto, da quando lo storytelling è diventato più importante della realtà (qualcuno ha detto “Jada Pinkett Smith”?), da quando la mistica dell’immedesimazione ci ha fatto decidere che non vogliamo conoscere, vogliamo emozionarci, vogliamo pensare che tra noi e una persona di successo non ci siano differenze, che si tratti di artisti, capi di stato, ricche ereditiere o narcotrafficanti. Se su Prime si trova una docu-serie su Carlo Verdone e non su Al Pacino non è perché il secondo abbia meno cose da raccontare: è perché Verdone si siede al bar, sta in coda al semaforo, si annoia a casa, si incazza per le buche e si agita per le partite della Roma, mentre Al Pacino è talmente distante da noi che ad un certo punto della carriera ha impersonato il diavolo e tutto il mondo ha pensato “In effetti i ruoli da essere umano gli stavano stretti”.

Va da sé che il racconto della normalità dura poco e poi stanca (vedi la seconda stagione dei Ferragnez) e così serve allargare il campo e abbassare il tiro per trovare nuovi soggetti, al punto che in questo momento quello del biografo è di gran lunga il mestiere più sicuro del mondo; quel “posto fisso” che ogni genitore suggerisce ai propri figli di inseguire per evitare lo spauracchio del precariato. I biografi hanno sostituito gli impiegati delle poste: se ieri il mantra era “tutti prima o poi devono mandare lettere o spedire pacchi”, oggi che le lettere si mandano dal computer e i pacchi li viene a ritirare il corriere il mantra è “tutti prima o poi vogliono una biografia”, e se ancora non siete convinti vi basterà qualche secondo su Google per trovare siti che offrono biografie su commissione con slogan come “regalati un’esperienza particolare” o “tu non devi fare altro che raccontarti, al resto ci pensiamo noi”.

Forse quella delle biografie in formato Smartbox e dei documentari sul nulla è una moda passeggera, forse è il futuro, o forse è un piano ordito da tutti i laureati in comunicazione per vendicarsi dell’etichetta di “scienze delle merendine” con cui il mondo li sfotte da sempre. O forse non è reale, sta succedendo dentro la mia testa e dal nulla mi ritroverò in una libreria a guardarmi intorno e urlare “Allora il mondo è impazzito! Sono il solo da queste parti che abbia rispetto per le regole?”.

Epilogo: è il 2053, Ultimo ha quasi 60 anni e alla fine è diventato davvero il nuovo Bob Dylan ma nessuno se n’è accorto, dato che i documentaristi sono occupati a narrare le straordinarie gesta di un bambino di 4 anni che colora senza uscire dai bordi, Leone Lucia Ferragni ha fatto la fine di Macaulay Culkin e i passeggeri della metropolitana leggono ognuno la biografia dell’altro; alla stazione un barbone offre raccomandate con ricevuta di ritorno in cambio di pochi spiccioli, chi gli passa davanti distoglie lo sguardo o finge telefonate in arrivo, tutti tranne una ragazza – sulla trentina, occhiali con lenti esageratamente grandi, tailleur su misura, aria da donna in carriera con desideri infranti e valigetta zeppa di scritti da revisionare – che si china, lascia qualche moneta nel bicchiere di cartone e lo guarda con un vago accenno d’intesa; lui le regala un sorriso sdentato e lei si allontana, malinconica ma in fondo felice di aver dato retta a suo padre quel giorno di tanti anni fa, quando le disse: “Dai retta a me, i sogni sono romantici ma con la corrispondenza non si riempie il frigo: lascia perdere il concorso alle poste e studia storytelling. Al mondo servono racconti, non francobolli”.


Una replica a “Ultimo posto fisso”

  1. Avatar Oltre la Luce – Plautocrazia

    […] mascotte ho pensato che ciò che le manca per avere il piglio giusto oggi è lo storytelling. Ormai tutto è narrazione e una semplice mascotte, per quanto ben realizzata nel dettaglio, resta un pupazzo freddo e rischia […]

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