Favole violate

Ribaltare la prospettiva, insinuare dubbi e quell’attimo sospeso tra il re nudo e noi

Una delle cose che più mi diverte, nel sadico esercizio della prospettiva, è ribaltare la morale delle favole. Letteralmente. Adoro vedere gli sguardi sbigottiti mentre dico, ad esempio, che Il brutto anatroccolo non insegna affatto che dentro ognuno di noi ci sia un cigno inespresso, ma insinua invece l’idea malsana che quel cigno ci debba essere per forza, che vada inseguito ossessivamente, che si debba essere in ogni caso schiavi della bellezza esteriore.

Lo so, state storcendo il naso, ma è la pura e semplice verità: l’anatroccolo non si riscatta diventando un fisico nucleare di successo, scoprendo la penicillina, fondando la Microsoft o vincendo i mondiali con la mano de dios. Non si riscatta dimostrando d’essere più della propria estetica. La catarsi avviene diventando bellissimo, cioè la migliore espressione degli stessi canoni che l’avevano escluso quando era brutto, e buonanotte all’autostima e alla millantata “accettazione delle diversità”, ché puoi permetterti di essere diverso solo se poi rientri nei ranghi degli anseriformi di bell’aspetto entro la fine della fiaba. E tu, piccolo bambino focomelico col piede equino e le orecchie a sventola in cerca di insegnamenti morali, non vorrai restare brutto tutta la vita? Non vorrai far pace con la tua bruttezza e impedirle di condizionarti in altri ambiti? Cosa sei un aspirante adulto civilizzato boomer?

Domenica sono stato a vedere il nuovo spettacolo di Luca Bizzarri, “Non hanno un dubbio”, sequel teatrale del primo, “Non hanno un amico”, nonché espressione teatrale del podcast satirico che il Bizzarri porta avanti da qualche anno. Uno spettacolo ben costruito, in una replica forse – immagino – più difficile di altre: nella mia algida Bergamo, di fronte a un pubblico che si dimostra freddo come la sua città. Il buon Luca ha fatto il suo, egregiamente e con gran mestiere, ma le battute, benché molto buone, entravano spesso a fatica, tanto da farmi inizialmente credere che il leghismo endemico e l’affezione tutta territoriale a una certa destra suscettibile ne fossero la causa. Poi, minuto dopo minuto, ho capito che si trattava di aspettative sconvolte.

Quelli che non hanno un amico, nell’idea iniziale del podcast e del primo spettacolo, sono i politici. Sono loro, da Salvini a Schlein, da Toninelli a Lollobrigida, fino all’immancabile Deus ex machina della satira italiana: Maurizio Gasparri. Sono i nostri (sigh) rappresentanti, in un mondo di immediatezza delle figure di merda, ad essere desolatamente soli e sprovvisti di gente che requisisca loro gli smartphone un attimo prima di vederli praticare l’ennesimo harakiri mediatico in preda alla febbre dell’influencer. Sono loro il bersaglio, buona parte del pubblico penso si aspettasse che continuassero a esserlo, e credo – ma è solo una mia ipotesi – che Bizzarri contasse proprio su questo.

Nel secondo spettacolo, rispetto al primo, non cambia soltanto l’oggetto dell’assenza, passando dall’amico al dubbio; cambia anche e soprattutto il soggetto: quelli che non hanno un dubbio siamo noi, tutti noi, con le nostre vite piene di certezze pronte a essere messe in ridicolo. Ci sono, i riferimenti alla politica, eccome, e non che il suo predecessore fosse un monologo di scherno unidirezionale, figuriamoci, a 50 anni da Fantozzi e 2000 da Plauto la comicità continua ad essere uno specchio travestito da finestra sul mondo. Però a questo giro la satira politica lascia decisamente spazio alla satira di costume, e l’introspezione è meno sfumata, meno diluita tra le pernacchie ai gasparrismi di sorta, meno sottesa. Molto meno sottesa.

Così, più lo spettacolo proseguiva – relegando i politici a discorso di contorno e convergendo inesorabilmente sui nostri popolani patetismi – più le risate a mezza bocca, gli applausi fuori tempo e i silenzi tonanti di una location non esattamente adatta al teatro di prosa prendevano le sembianze dello stupore da aspettativa stravolta. Di più: da favola violata. Una favola in cui i buoni siamo noi, gli intelligenti siamo noi, gli adulti nella stanza siamo noi, i cigni intrappolati nel corpo di anatroccoli siamo noi. La favola che ci raccontiamo ogni giorno, sui social e non, con la morale pronta in tasca, l’ironia prevedibile e il dito già puntato contro i cattivi. Una favola talmente piena di certezze da illuderci di sentirle confermare a teatro, e da farci rimanere poi tremendamente male quando il clown sul palco da cui ci aspettiamo torte tirate in faccia agli altri, rovescia tutto mettendo in dubbio sé stesso e di riflesso noi, o viceversa.

C’è un’altra favola di cui mi diverto molto a ribaltare la morale, ed è quella dei vestiti nuovi dell’imperatore. Il leader che si circonda di adulatori e perde contatto con la realtà, la massa servile che si adegua alla credenza dominante, il pensiero critico corrotto dalla paura di sentirsi esclusi, il tutto che si tiene nonostante il ridicolo e poi il bambino con la sua purezza che dice la verità di fronte all’imperatore. Tutte cose che potete trovare incise sulla pietra dei gruppi Facebook delle mamme orgogliose o dei comizi a 5 stelle, eppure il punto di tutta la favola è un altro.

La frase del bambino non fa rinsavire il popolo, non gli dona il sacro fuoco della verità, e nemmeno il coraggio del pensiero critico, anzi, fa l’esatto contrario: dopo “il re è nudo” non succede nulla. Cambia soltanto il pensiero dominante, a cui tutti (di nuovo) si allineano in fretta e furia, protetti ancora una volta dal conformismo, certi di avere un capro espiatorio da sventolare alla bisogna. Il fatto che la nuova rassicurante concordanza collettiva corrisponda alla realtà è soltanto un caso fortuito, del tutto ininfluente nella storia.

Il vero succo del racconto, la morale della favola, l’affresco umano, sta in quell’attimo di incerta sorpresa, in quel rimbalzo del bicchiere tra l’urlo del bambino e l’assorbimento frettoloso del nuovo mantra comunitario. Lo stesso attimo sospeso che domenica sera ha mandato fuori tempo qualche applauso, reso meno rassicuranti le risate e tremendamente incisivo il finale. Quella sospensione momentanea delle nostre certezze che non so se fosse il senso dello spettacolo, l’obiettivo di Bizzarri, non so nemmeno se tutto quel che ho scritto sia soltanto frutto delle mie paranoie, ma di certo… Di certo non c’è nulla.

No, neanche il finale ad effetto.

O forse sì.

Dovrei chiedere a un bambino.


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