
Esiste da sempre un enorme malinteso nella fantascienza, che si parli di letteratura o di cinematografia: la fantascienza non racconta la tecnologia; la tecnologia è soltanto il mezzo che la fantascienza usa per raccontare la natura umana. Per questo Black Mirror ha avuto tanto successo da riportare in auge il termine “distopia” e farlo usare a cazzo per i prossimi 50 anni: alla base di ogni episodio di Black Mirror c’è la semplice idea che oggi – non domani, non tra un secolo, non tra un milione di anni; oggi – se ci fosse quella particolare tecnologia la gente si comporterebbe esattamente così. Il soggetto non è il chip futuristico, il clone domestico, la rigenerazione cellulare; siamo noi, coi nostri difetti che sono sempre gli stessi, da quando dormivamo sulla paglia a quando idealmente potremo essere governati dai giudici di un talent show con gli avatar seduti in platea al posto nostro.
Flashback: Mediaset, Italia Uno, stagione 1996/97, Asimov è morto da pochi anni e Mai Dire Gol è già il programma televisivo più importante del decennio – nonché di tutti i decenni a venire nonostante la chiusura – quando fa il suo esordio il Nonno Multimediale: Francesco Paolantoni, nei panni di un fantomatico vecchio professore del MIT di Boston, offre alla Gialappa’s la possibilità di ironizzare sull’esaltazione generalizzata che si viveva in quegli anni riguardo i computer, internet, e le mirabolanti possibilità delle innovazioni tecnologiche incipienti. Naturalmente il “super esperto” è in realtà un cialtrone da cui i tre non riescono mai a farsi spiegare un concetto, e che mette fine ad ogni quesito con “Capisci di internèt tu? E allora che parl’a fare?”.
Nell’evoluzione del personaggio, il Nonno Multimediale si rivela una sorta di hacker, in grado di penetrare i sistemi informatici, attribuendosi lauree mai conseguite (o cancellando quella vera del Signor Carlo per vendetta), causare malfunzionamenti di vario genere e interferire con qualsiasi apparato elettronico, dando vita a sketch in cui il Nonno risultava il responsabile di ogni notizia di blackout informatico o simili, dall’estrazione della lotteria allo spionaggio internazionale.
Essendo un cialtrone, però, la chiave comica era che tutte queste intrusioni e interferenze gli riuscissero non per la propria bravura – i bravi non fanno ridere, mai – bensì per l’ingenuità di chi gestiva i sistemi informatici: uno dei tanti esempi, poi diventato tormentone, riguardava il millantato imbroglio al Festival di Sanremo che fece arrivare secondi Elio e le storie tese. I Gialappi svelavano che non c’era stato nessun complotto della censura Rai per penalizzare gli Elii, ma soltanto il Nonno che aveva truccato il voto per gioco, entrando nei blindatissimi server del Festival con la password “Pippo Baudo” (successivamente modificata in “Baudo Pippo” dai furbissimi tecnici Rai dopo l’intrusione).
Salto in avanti di quasi 30 anni: 2025, Parigi, dal museo più famoso del mondo viene sottratta una collezione di gioielli appartenuti al Napoleone meno importante, che nei titoli a sei colonne del giornalismo disperato perde il suffisso “III”, diventando magicamente il suo ben più celebre zio per accalappiare un paio di click in più. Mentre noi poveri amanti della fiction già immaginavamo Arsenio Lupin o la combriccola di Ocean, piani sviluppati su diversi livelli di complessità per illudere la gendarmerie di avere tutto sotto controllo, ladri funamboli che piroettano tra raggi laser, vedette in incognito armate di occhiali a raggi X, capi banda dallo sguardo magnetico e direttori museali che urlano “Dannazione, ce l’hanno fatta di nuovo!”, la realtà ci costringeva – dettaglio dopo dettaglio – a lasciare le sceneggiature hollywoodiane in favore della molto più realistica cialtroneria che tutto pervade in questi tempi approssimativi.
In principio fu la notizia che i gioielli non erano assicurati “Perché non ne valeva la pena” (tradotto: l’assicurazione costa, noi ci facciamo belli col patrimonio collettivo e millantiamo i vantaggi della privatizzazione, ma quando c’è da cacciare soldi di tasca nostra diventiamo più spilorci dei genovesi), poi fu la stanza senza guardie a causa della “razionalizzazione del personale” (tradotto: pagare chi lavora è un costo, noi ci facciamo belli col patrimonio collettivo… vabbè, avete capito), poi le teche non allarmate, poi la finestra con un montacarichi in bella vista che nessuno ha notato, poi i ladri che nemmeno si erano procurati una sporta della spesa per metterci la refurtiva e sono scappati coi gioielli tenuti in mano come dei ladri di tonno al supermercato.
Notizia dopo notizia, la vicenda prendeva i contorni della commedia monicelliana, ma io ancora non trovavo il guizzo per scriverne a dovere; tutti gli spunti erano ridicoli ma senza costrutto, senza riferimenti passati, troppo ancorati alla rapida caducità dei meme, troppo fini a sé stessi per non esaurirsi nello spazio risicato di un tweet, insomma, la solita triste realtà che mette i bastoni tra le ruote alla satira. Stavo già per abbandonare l’idea quando, all’improvviso, eccolo lì, il dettaglio rivelatore, fresco di prime pagine roboanti: i ladri – dicono le news delle ultime ore – hanno agilmente disattivato le telecamere perché la password del sistema di sicurezza era “Pippo Baudo” “Louvre”.
Ma quale George Clooney? Quale piano geniale per ingannare avanzatissime infrastrutture tecnologiche? Quale tensione thrilling? Quale immagine romantica degli hacker anni ’80 intenti a forzare i server dalla cantina di nonna scrivendo codice verde fosforescente su schermo nero? È il mirabolante ritorno del Nonno Multimediale, la quintessenza della nostra inguaribile superficialità: i gioielli non li assicuriamo per risparmiare, tanto chi vuoi che li rubi? Licenziamo le guardie in nome della spending review, tanto cosa mai potrebbe succedere? Per vedere un porno a breve servirà lo SPID, per installare i giochini sul telefono serve un account con password super sicura, con decine di vincoli che cambiano ogni quarto d’ora, autenticazione a due fattori, numeri di telefono certificati e codici segreti a scadenza, ma per il circuito chiuso delle telecamere del Louvre usiamo “Louvre” come password, così resta in mente e gli stagisti non vengono continuamente a chiederla, tanto chi mai se lo immaginerebbe? È così palese che è celato.
È tutto qui, realtà nuda e cruda, e qualcuno di voi sotto sotto starà pensando che la mia sia un’iperbole, la solita esagerazione ai fini comici, ma l’informatica è il mestiere con cui pago il mutuo – almeno finché non troverò validi finanziatori delle boiate che scrivo qui, fatevi avanti, che aspettate? – e vi posso assicurare che è così ovunque, anche e soprattutto in quegli ambienti che logica vorrebbe fossero più curati e blindati. Non c’è interfaccia user-friendly a prova di idiota; non c’è protocollo di sicurezza a prova di utente pigro che invia codici riservati ai colleghi per non alzare il culo dalla sedia; non c’è implementazione di policy restrittiva che non riceva richieste di deroga, autorizzazioni speciali, gestione manuale, modifica fuori standard solo per questa volta davvero poi non te lo chiedo più è un caso eccezionale dai non farmi seguire tutto l’iter lo so che bisogna aprire un ticket ma andiamo troppo lunghi e abbiamo delle scadenze strette non puoi fare un’eccezione che poi ti offro il caffè?
La password facile è la regola, non l’eccezione, perché ad occuparsene non ci sono cervelloni alieni giunti da avanzatissimi pianeti lontani. C’è gente affetta dalla nostra stessa pigrizia, con la nostra stessa repulsione verso qualsiasi procedura certificata o soltanto nuova, con la nostra stessa memoria labile, gente come noi che compila i nostri stessi post-it con le password super segrete incollati sulla scrivania, tutt’al più debitamente messi in modo da risultare nascosti sotto la tastiera; se non mi credete, domandatelo a chiunque lavori in un’impresa di pulizie. La regola non è John Nash, è Gasparri in collegamento video con la password appiccicata in bella mostra sul PC, e ve lo posso firmare col sangue; altro che chip sottocutanei, connessioni neuronali, viaggi su Marte e uteri artificiali: l’unica vera distopia è che tutto il progresso del mondo non impedisce all’umanità di essere rappresentata perfettamente da Gasparri.
Ora, io non so se tre decenni fa la Gialappa’s avesse già intuito tutto e ci abbia inutilmente avvertito per anni – vai a sapere se sono più geni loro o più devoto adoratore io – ma da allora il progresso tecnologico è stato impressionante, le possibilità sono esplose, la quotidianità che oggi diamo per scontata ha i contorni di ciò che era fantascienza un battito di ciglia fa, ma Paolantoni potrebbe indossare domani i panni del Nonno Multimediale, sostituire Sanremo con Parigi, “Pippo Baudo” con “Louvre”, e quella gag potrebbe essere rifatta pari pari rimandendo terribilmente attuale; forse addirittura più di prima, ché almeno negli anni ’90 l’illusione che potesse essere soltanto una sceneggiata comica, e non la fotografia esatta della realtà, ancora c’era.
Chissà cosa direbbe Asimov, se si risvegliasse oggi, vedendoci usare con nonchalance l’intelligenza artificiale per fare i meme o interrompere la visione di un film per chiedere a ChatGPT quanti anni ha e con chi è sposato quell’attore di cui non ricordiamo il nome. Chissà cosa direbbe vedendoci tanto abituati al click frenetico da credere alle mail phishing, agli SMS truffa, ai vaccini che trasmettono l’autismo, il tutto mentre ridiamo di quelli che davano i soldi a Wanna Marchi. Chissà se temerebbe ancora la ribellione delle macchine, vedendoci essere più gentili con Alexa che coi nostri parenti.
Chissà quanti secondi ci impiegherebbe Asimov a rapinare il Louvre. Chissà come gli starebbe il gilet di Paolantoni.





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