
Benvenuti al nuovissimo episodio dei Dilemmi Satirici, la più teorica delle rubriche in un mondo alla disperata ricerca di risposte pratiche; insomma, più utile di un’opinione di Capezzone, ma meno di una forchetta per minestra. Quello che vi propongo oggi non è tanto un dilemma quanto una personalissima teoria che vi esporrò come circoscritta alla satira sui social, seppure sia convinto che con le dovute proporzioni sia valida anche per chi la satira la fa di mestiere in TV o altrove, ma lasciatemi iniziare borbottando.
Sono troppo vecchio per un sacco di cose: troppo vecchio per non confrontare ogni cosa con il secolo scorso; troppo vecchio per pogare ai concerti – ma lo faccio comunque. Hasta la transenna, siempre! – troppo vecchio per accettare la vacuità dei remake; troppo vecchio per resistere alla tentazione di rispondere “chi??” al nome di qualsivoglia nuovissimo fenomeno pop, per adeguarmi ad ogni neologismo idiota nel tentativo di sembrare giovane, per credere che coi nostri culi caldi rischieremmo mai la guerra atomica, per sventolare i meme alle manifestazioni (forse pure per andarci, alle manifestazioni), ma soprattutto sono troppo vecchio per sprecare il tempo con le persone noiose.
Malgrado il lamentoso incipit, non sono qui per annunciare la mia prossima carriera di compositore di melodie folk per violino, e non ho intenzione di mozzarmi un dito ogni volta che un idiota mi rivolge la parola. Sono qui, come sempre, per parlare di stupidaggini col tono di Schopenhauer che spiega il fuorigioco a Carmen Di Pietro.
Sono troppo vecchio per queste stronzate, dicevo, ma sono anche il tipo di persona che le dita le conserva solo per il gusto di infilarle nelle altrui piaghe. Una combinazione di psicopatie che da una parte mi trascina sui social a battere l’ironia dove il dente duole, e dall’altra, in conseguenza di tale dolenza, ad attirare frotte di indignati, insulti più o meno coloriti e una minaccia di morte di tanto in tanto; insomma, nulla di trascendentale, soltanto la quotidianità di ogni lanciatore di petardi nella gabbia dei macachi.
Da questa considerazione nasce una filosofia semiseria che chiameremo “Lo zen e l’arte di salvare la satira ignorando quelli che parlano durante il film”. È una pratica che mi sento di suggerire a chiunque voglia tentare la strada dell’umorismo, in particolare se satirico, per coniugare la stringente necessità di non farsi venire un esaurimento nervoso con il non meno urgente bisogno di ristabilire l’importanza della separazione dei contesti.
C’è un’idea stupida, e perciò estremamente diffusa, secondo la quale la libertà di parola preveda l’obbligo di considerarne ogni esercizio come ugualmente nobile: se io ho il diritto di dire ciò che penso, tu non solo hai l’obbligo di ascoltarmi, ma anche di dare credito a ciò che dico, foss’anche una teoria sul coinvolgimento del Grande Puffo nel rapimento di Aldo Moro. Non è una novità – già Kierkegaard un secolo e mezzo fa notava che la gente esige la libertà di parola per compensare la libertà di pensiero – ma in tempo di social il fenomeno va sempre più esasperandosi.
Se quest’idea, già mostruosa di per sé, è causa di enorme spreco di tempo a illudersi che abbia senso discutere con gente il cui argomento più solido è “A voi sinistri piace il cazzo nero”, quando ci si sposta sul terreno della satira la questione esplode letteralmente. Questo perché la satira ha una caratteristica fondamentale, che da duemila anni infastidisce politici scarsi, opinionisti a gettone e moralisti di sorta: non prevede contradditorio.
Il contradditorio alle battute non può e non deve esistere, per il semplice fatto che sono battute: irridono la realtà, la deformano per esorcizzarla, per il gusto sadico di infastidire chi è suscettibile, ma non hanno nessun obbligo di esserne aderenti, né tantomeno hanno potere su di essa. La satira non ha mai cambiato le cose, non ha mai influenzato l’opinione pubblica, mai spostato nessun equilibrio politico né tantomeno un singolo voto, e io lo so che in questo momento state pensando a Grillo, ma domandatevi: è stata la satira di Grillo a dar vita ai 5 stelle, o è stata una società che rifiuta l’alfabetismo a disimparare la distinzione tra un’iperbole e una linea politica?
La logica confermativa delle bolle social ha abituato molti a considerare “nemico da combattere” tutto ciò che assomigli vagamente a un’obiezione al proprio pensiero, o una critica alla propria “squadra”, a prescindere dal registro e dal contesto. L’umorismo, in particolare quello satirico, corre per sua natura sul filo della critica, e quindi causa parecchi bruciori di stomaco a gente che poi corre a replicare alle battute, contestandone l’oggetto (l’ultima cosa da fare: non si può discutere l’argomento di una battuta, perché la battuta lo irride su un terreno che non è quello del dibattito). A questo punto, scartate le truppe cammellate dei bot e degli ultrà armati di bandierine, va detto che molte vittime di questo riflesso lo fanno in totale buona fede, e a volte (poche) offrono pure spunti di dibattito interessanti. Ma qui arriviamo alla mia filosofia: a nessuna obiezione seria mossa in seguito a un pezzo di satira – foss’anche la più lucida delle disamine intellettuali – va data corda. Mai. La satira è un contraltare faceto alle questioni serie, o presunte tali, e contraltare faceto deve rimanere. Delle contraddizioni sollevate dalla satira se ne può discutere, anzi, lo si deve fare, ma non lì. Non su quel terreno. Non con quel linguaggio. Non partendo dalla premessa comica.
Se ciò è valido per tutte le forme di satira, lo è ancora di più per quella politica. È indispensabile che satira e politica si sfiorino senza mai toccarsi davvero, perché se i terreni si mescolano e i linguaggi si toccano – alla lunga – il rischio non è quello veniale di dare serietà ai giullari, ma quello molto più grave (e dannoso) di smettere di pretenderla dai politici, e se non avete vissuto nella capanna di UnaBomber fino ad ora saprete che sta già succedendo: campagne elettorali a suon di frecciate sarcastiche, organi ufficiali di partito che rilanciano i meme, querele tonanti contro le vignette, sketch comici più dibattuti dei contenuti dei talk show a cui fanno da copertina, presidenti americani con la corona che rovesciano merda virtuale sui manifestanti, le live di Salvini su TikTok o qualsiasi cosa stia facendo Giuli mentre scrivo questo elenco.
Perciò la regola fondante del mio personale zen satirico – forse dovrebbe essere considerata anche al di fuori dell’arte delle pernacchie, ma non è che posso fare tutto io. Fondate una vostra filosofia e vediamo quanti voti prendete – è: non date corda ai commenti alla satira che non siano ulteriori battute. Ignorateli tutti, o al massimo sfotteteli. Non soltanto quelli stupidi e sgrammaticati, non soltanto quelli di chi sente il bisogno di fare le didascalie dei sottintesi per far vedere a tutti che l’ha capita, ma anche quelli che sembrano sviluppare ragionamenti, a maggior ragione se solidi.
Fatelo, senza pietà. Vi daranno degli snob, insinueranno che siete senza argomenti e si vanteranno nel loro circolo di onanisti di come vi hanno “blastato” o altri termini di uguale desolazione cognitiva, ma ciò che non hanno inteso dall’inizio – e che rifiuteranno di capire, dato che sono arrivati per dire la loro, non per prestare attenzione alla vostra – è un concetto semplicissimo: le tue solidissime e interessantissime argomentazioni le devi portare nella sala dove si dibatte la questione, non nello spogliatoio dei clown. Qui si lanciano torte, non si raccolgono firme.
So che sembra assurdo – e pure un enorme spreco, in un momento in cui dibattito serio e congiuntivi azzeccati sono più rari del Gronchi Rosa – ma la satira deve ricominciare a concedere le uniche reazioni correttamente contestualizzate: ridere o non ridere. Fine. Le analisi di fattibilità del ponte sullo stretto non influiscono minimamente sulla ridicolaggine di Salvini col caschetto; i pipponi mal tradotti degli esperti di geopolitica laureati su Facebook non cancellano il fatto che “Prosegue il processo di pace in Medio Oriente: 47 morti” sia una battuta perfetta (ed eterna, dato che ha 30 anni e non è invecchiata di un giorno); istruire sui pericoli dell’obesità è importante, ma la ciccia di Ferrara fa comunque ridere, se non la si osserva dallo studio di un nutrizionista.
Come nel cinema – altra arte che sta subendo la stessa inesorabile sorte – anche nella satira vige la sospensione di incredulità, e chi non riesce a sospendere la propria è comunque di troppo. Per quanto valida sia la sua posizione e buone le sue intenzioni, sarà sempre e comunque il tizio che rovina la visione del film a tutti dicendo che in Armageddon avrebbe avuto più senso addestrare gli astronauti a piazzare esplosivi piuttosto che addestrare operai all’assenza di gravità, e poi non è realistico che gli occhiali siano sufficenti per camuffare Superman, e i vichinghi non avevano i denti così bianchi, e Braveheart non è storicamente affidabile, e Aladdin è fuorviante perché i tappeti volanti non esistono, per non parlare di quanto sia assurdo che nei film horror la gente scenda sempre in cantina invece di scappare.
O si cede alla concretizzazione delle opere di fantasia, rischiando la morte per disclaimer e offrendo il fianco a un futuro di arte accuratissima ma terribilmente noiosa, oppure si può ribadire l’unica risposta possibile: “Ma guarda il film goditi la battuta e non rompere i coglioni”. Vedi mai che, a forza di sentirselo dire, finiscano pure a votare meglio.
Naturalmente tutto ciò che avete letto finora è il frutto esasperato della mia inesorabile vecchiaia, e se, arrivati fin qui, sentite il bisogno di discutere tutta la filosofia, o anche soltanto insultarmi gratuitamente, non trattenetevi. Non temete, non è un test, è davvero un dibattito aperto. Ora scusate, devo andare, ho visto un tizio che assomiglia tutto a Superman, ma non può essere lui: ha gli occhiali. Al prossimo dilemma!






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