Svasticazzi

Lo chef tonto, gli aspiranti jedi, i tatuaggi cretini e l’ininfluenza dei fasci cosplayer

Ho un conoscente, amico di amici, che ha il profilo del duce tatuato sul polpaccio, la testa sempre perennemente rasata, una collezione discografica di gruppi oi! di estrema destra tristemente risicata – ne conosco più io di lui, il che è tutto dire – idee politiche aberranti e una specie di altarino sacro a casa ricoperto di ridicoli gadget da bancarella littoria, quali soprammobili con slogan del ventennio, portachiavi con le croci celtiche, bottiglie col duce sull’etichetta, fotomontaggi di Himmler con in mano la coppa del mondo del 2006, scatole di anfetamine marchiate “istituto luce”, apribottiglie con la scritta “Dio, Patria e Peroni”, la riproduzione fedele di una costola di D’annunzio, plug anali a forma di manganello e lubrificanti all’olio di ricino per veri patrioti dell’amplesso autoindotto.

Ok, forse l’apribottiglie me lo sono inventato, comunque per il resto è un personaggio che risponde a tutti i cliché che possano venire in mente oggi pensando al termine “neofascista”. Ho specificato “oggi” volutamente, dato che gli anni di piombo sono finiti da un pezzo, la gente che va in piazza a spararsi in faccia o mette bombe sui treni fortunatamente scarseggia e se escludiamo una manciata di psicopatici maneschi i neofascisti sono, nella stragrande maggioranza dei casi, la versione alcolizzata e con disfunzione erettile – su quale sia la causa e quale l’effetto lascio ai posteri l’ardua sentenza – dei fan sfegatati di Star Wars (o di qualunque altro intoccabile capolavoro per nerd che vi faccia sentire presi in causa, fate voi, non vorrei vi percepiste esclusi).

Mentre inviate alla Morte Nera le coordinate di casa mia, permettetemi di spiegare il concetto: al di là dell’essere obiettivamente una stupidaggine, dirsi fascisti nel 2025 – con diritti acquisiti, pancia piena e libertà d’espressione a forma di smartphone sempre in tasca – il neofascismo è perlopiù un passatempo, vagamente ridicolo agli occhi del resto del mondo, con il quale baloccarsi tra una sbronza di Caffè Borghetti e l’altra. È né più né meno come dirsi guerrieri jedi: un cosplay collettivo in cui tutti gli iniziati si incontrano per vestirsi alla stessa maniera, ripetere le stesse frasi, rimpiangere la trilogia originale il ventennio criticando la perdita dei valori rispetto ad allora, giudicare la gente dal colore della spada laser e farsi le seghe pensando alla principessa Leila; poi però tornano a casa dal PredappioCon, tolgono dallo zaino il Funko in edizione limitata di Starace, tornano nel mondo reale e vanno al baretto a parlare di calcio, ridendo e scherzando col vicino di casa fan di Star Trek marxista come niente fosse, e con tutto tranne la voglia di scontro.

Perché dico tutto questo? A parte il gusto di inimicarmi fazioni di nerd a caso, ho ripensato a questo parallelo (e al mio conoscente, poi ci torniamo) quando ho letto la polemica del quarto d’ora attuale sullo chef che ha confuso Facebook con il PredappioCon.

Riassunto: tale Paolo Cappuccio – non farò scialba ironia sul nome, ma sentitevi liberi di pensarla – va su Facebook e scrive un annuncio di lavoro, o forse una richiesta di aiuto psicologico, che recita più o meno: “Cerco cuochi capaci. Niente comunisti, niente fighetti, niente froci”. Scatta il solito carrozzone della “bufera social”, compresi gli interessantissimi editoriali di accusa e di difesa, le scuse puerili, le millantate amicizie gay del tapino e l’immediato invito a comparire in diretta da Cruciani, il quale – essendo uomo di mondo e di mestiere – del fantomatico annuncio di lavoro se ne libera velocemente e trascina il povero malcapitato nel trivio, convincendolo a parlare dei tatuaggi che porta addosso. Il cosplayer dalla testa calva sente il risveglio della forza in sé e – autodefinendosi un rivoluzionario – racconta di essere molto fiero di essersi tatuato Mussolini, l’altare della patria e dulcis in fundo la svastica.

Torniamo per un attimo al mio conoscente. Come vi dicevo, è uno stereotipo con le gambe e, proprio per questo, nel mondo reale è una persona simpaticissima con cui nemmeno un veterocomunista incallito come me ha mai avuto nessun problema, anzi, ci si sfotte vicendevolmente mentre ci si beve una birra insieme e tutto finisce lì, come è ovvio che sia. Certo, al Lucca Fascism&Drugs diventa subito Feldmaresciallo, espone i suoi vessilli con protervia e riceve richieste di selfie col polpaccio in vista, ma fuori dalla sceneggiatura di Big Ben Theory (vi prego, non costringetemi a spiegarla) è soltanto un simpatico gigione convinto che Darth Fener abbia bonificato l’Agro Pontino a mani nude. Voglio dire: chiedereste mai un’opinione sui massimi sistemi a uno così? Considerereste mai influente una qualunque sua frase che vada oltre il recinto della chiacchiera da Bar Sport?

Naturalmente no, ed è proprio qui che mi riallaccio all’improvvido chef. Come è giusto che sia, a nessuno frega realmente un cazzo delle sue idee sul fatto che i gay siano pessimi cuochi e i comunisti non abbiano voglia di lavorare. Non frega ai Sallusti che sguainano la spada in sua difesa, non frega agli ipotetici interessati all’offerta di lavoro e nemmeno a quelli che invocano condanne per il reato di dichiarata idiozia. Il povero Cappuccio – furbo come un cervo, avrebbe detto qualcuno – ha soltanto pisciato fuori dal vaso come molti altri, ma a differenza di altri si è lasciato convincere dall’engagement che il suo costume da Chewbecca del Reich e quella boiata di annuncio fossero argomento di interesse nel mondo reale più di quanto lo siano il giusto grado di doratura dei Sofficini o la lanugine ombelicale di mio nonno. Naturalmente non lo sono, e non lo sono diventati nemmeno quando – ingolosito da un paio di riflettori e imbeccato da uno che fattura dando la parola ai disagiati – ha sparato tutti i colpi che gli rimanevano in canna raccontando dei suoi furbissimi tatuaggi.

Nemmeno tatuarsi l’altare della patria è proprio una trovata da fini intellettuali, per carità; però la svastica è da cretini completi. Non tanto per l’ironia involontaria del tatuarsi il simbolo di un contesto in cui i tatuaggi identificavano chi era considerato immondo; non perché essere napoletano e tatuarti quella roba lì è come essere juventino e urlare “Viva l’Heysel”; non per una questione di senso del pudore e nemmeno per la questione squisitamente estetica che dopo “American History X” nessun essere umano potrà mai ambire ad essere figo con un tatuaggio del genere quanto Edward Norton. È da cretini perché quelli come il Cappuccio, come il mio conoscente e come la maggior parte degli amichetti con cui organizzano peep show a Salò, sono dei cagasotto, né più né meno quanto ogni nerd con la maschera di Maul, e un tatuaggio come quello è destinato dalla notte dei tempi a trascinarli verso ineluttabili figure barbine e lagne infantili.

Le arrampicate sui vetri del Cappuccio di fronte alla prima mezza tempesta di merda social sono l’ennesima dimostrazione, se mai ce ne fosse bisogno, che questi simpatici gigioni con l’artrosi al braccio destro millantano fierezza ideologica estremista come un seienne millanta di fare quello che vuole e non quello che dice la mamma: al primo accenno di Playstation sequestrata perdita di clientela hanno già il labbro tremulo, le lacrime in canna e le giustificazioni ciclostilate dal bignami di simbologia orientale per mentecatti, ché mica è una svastica nazista quella, figuriamoci, è un simbolo di origine millenaria che ha a che fare con la prosperità e l’evoluzione, mi sento molto in sintonia con l’India, ho fatto un viaggio mistico una volta che il mio pusher mi ha dato le anfetamine non marchiate Istituto Luce e da allora sono diventato molto spirituale, e poi Hitler ha rovinato per sempre i baffi alla Charlot, non potrei mai adorarlo, no, non è mio l’altarino col fotomontaggio di Himmler con la coppa del mondo, no, neanche il plug a forma di manganello… Ok, è tutto mio ma sono regali che mi ha preso mamma alle bancarelle, io non c’entro, lo giuro, abbiate pietà, tengo famiglia.

È così oggi, è stato così per i precedenti e sarà così per i prossimi scandali littori da un quarto d’ora; non potrebbe essere altrimenti, perché è così che si concludono le questioni ininfluenti, e io lo so che vi hanno cresciuto a pane e allarmismo, ma da quando ho iniziato questo pezzo ad ora che lo state leggendo già si è smesso di parlarne e tra un altro paio di giorni ci sarà un nuovo idiota da etichettare come pericoloso eversivo anche se la sua unica caratteristica evidente è il non sapersi trovare il culo con le mani.

Io ve lo giuro, vorrei avere la stessa preoccupazione che giurate di avere oggi – come lo giuravate ieri di fronte al braccio teso di… Come si chiamava? Boh, è successo il mese scorso, chi se lo ricorda più? – vorrei credere che le legioni di imbecilli infantili a cui Meloni e i suoi stanno offrendo sponda per tirare a campare siano una minaccia seria, eppure non riesco a osservare ‘sto carrozzone senza riportare tutto a un unico quesito fondamentale: se uno è fissato con Star Wars e sfornito di figa e buoni amici al punto da arrivare a tatuarsi la morte nera, vivere in un mondo di fantasia e voler assumere soltanto gungan nel proprio ristorante, perché mai il mondo reale dovrebbe occuparsene oltre un sonoro e doveroso “sticazzi”?


Una replica a “Svasticazzi”

  1. Avatar Citofonare Berkeley – Plautocrazia

    […] tornare e che, in mancanza d’altro, avete convertito l’impegnativa memoria in comodo allarmismo per i cosplay littori, ma Passaggio al bosco – nulla mi toglie dalla testa che ‘sta ridicola pantomima […]

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