Gli orsetti della percezione

Di citazioni sbagliate, rockstar diventate maestri di vita e peluche arraffatutto

Alla fine ci siamo arrivati. È stato un lunghissimo percorso di devastazione cognitiva e di ritorno alle pitture rupestri, ma ci siamo arrivati: Winnie The Pooh è diventato Jim Morrison. E chi altri poteva prendersi sulle spalle l’eredità culturale del compianto leader dei Doors, se non un orsetto di peluche?

È di una decina di giorni fa un articolo de Il Post che riprende un articolo di DIRT del 2022 che si rifà al sito Pooh Misquoted che al mercato mio padre comprò. L’articolo racconta di uno strano fenomeno per il quale in questo momento internet è pieno zeppo di citazioni di Winnie Pooh che con Winnie The Pooh non hanno nulla a che fare. O meglio: internet è pieno di frasi finto-filosofiche accompagnate da disegni di Winnie The Pooh, ma siccome la gente ha barattato la capacità di discernimento con i cuoricini, è probabile che mentre leggete queste parole vicino a voi ci sia un adulto convinto che un orso di peluche per bambini dica cose come “Che fortunato che sono, ad avere qualcosa a cui è così difficile dire addio”.

Cosa ci dice tutto ciò dell’assuefazione ai meme, alle card Instagram e all’intero comparto comunicativo fatto di immagini con sopra le scritte per gente spaventata dai testi senza figure è inutile che ve lo stia a spiegare, tantopiù che non credo nemmeno sia il punto interessante della questione. Il lato interessante non è l’instupidimento generalizzato – sai che novità – e non è neanche la tendenza ad attribuire frasi intelligenti a volti noti. La cosa interessante è il motivo per cui, dopo decenni di indiscusso predominio morrisoniano, a conquistare lo scettro di nuovo messia degli aforismi sia stato proprio l’orsetto – che poi sarebbe un’orsetta; Winnie è un nome femminile; Winnie The Pooh è una femmina; una femmina verso cui chiunque usa pronomi maschili senza che gli cada il cazzo o senta l’impulso a indossare zatteroni fosforescenti, e io non capisco perché questo non sia l’unico costante argomento sbattuto in faccia ai Pillon e a tutti gli altri sconvolti da Peppa Pig.

Sfoghi a parte: perché proprio Winnie The Pooh? È una storia che comincia molto tempo fa: erano gli anni ’90, o forse gli ultimi ’80. Morrison era morto da un pezzo, e con lui la poesia maledetta, il misticismo del tutto, le porte della percezione aperte dai barattoli di miele dalle droghe psichedeliche, la sperimentazione come stile di vita e l’universo caotico da cui strappare scampoli di illuminazione in forma di versi aperti. Versi aperti che dagli anni ’90 in poi hanno stazionato inossidabili sulle pagine di diari chiusi, tra una dedica del compagno di banco, una foto della boyband di turno, una barzelletta sconcia e un compito di algebra dimenticato. Certo, gli adolescenti citavano i Doors anche prima, ma è morendo e finendo nell’immaginario dei posteri che si passa da rockstar a maestro di vita; chiedete a Gesù.

Morrison fu l’apripista; poi arrivò il citazionismo a caso di molti altri: da Voltaire a Jane Austen, da Confucio a Don Bosco, Marx, Mandela, e poi Kennedy, Chanel, Totò, Pascal, Meryl Streep, Boccaccio, Johnny Rotten, Gianni Morandi, lo sceriffo di Nottingham, Uan, Giovanni Muciaccia e così via fino a Trapattoni. Ma erano anni analogici, senza Google, Wikiquote o TikTok; anni in cui per le citazioni di un film si doveva guardare il film, per quelle di Bukowski si doveva leggere Bukowski – e poi ti volevi alcolizzare, altro che fotografarti le chiappe in spiaggia – tutt’al più le si poteva copiare dalle riviste o assorbire da fratelli, cugini, coetanei; comunque qualcuno che aveva letto, visto, ascoltato.

Nulla di tutto ciò impediva citazioni sbagliate o attribuzioni fantasiose – di aforismi firmati Jim Morrison che però erano di Priebke ce n’era in abbondanza già allora – ma con internet i gradi di separazione sono completamente saltati, e insieme a loro l’ultimo baluardo che ci teneva al riparo da venditori del Folletto, buongiornisti mattinieri dall’ottimismo irritante, istruttrici di pilates e aspiranti guru. Le pagine dei diari privati diventarono profili social pubblici, Nietzsche entrò pesantemente in quota Baci Perugina, Borges prese a essere nominato nei meeting aziendali, e Twain e Wilde incassarono così tanta SIAE dalle pagine delle Smemo che Musk in confronto è Oliver Twist. Dante fu per sempre quello del culo e della trombetta, Einstein quello che andava male a scuola, Platone uno che non scopava, Leopardi il capostipite dei nerd e così via.

Eppure, in questa lunga e spasmodica attribuzione di frasi incisive, mai nessuno era riuscito a spodestare Jim dal trono. A 54 anni dalla sua morte, i ragazzini ancora lo riconoscono; non conoscono i Doors, non sanno chi è il Presidente della Repubblica e pensano che il congiuntivo sia un’identità di genere, ma la foto di Jim Morrison a torso nudo e braccia aperte – corredata da un adagio purché sia – l’hanno vista. Chi, sano di mente, potrebbe negare che il XX secolo è stato interamente suo? (Se a questo punto avete sorriso possiamo essere amici).

Poi è arrivato Pooh, e con il suo carico di infanzia perduta e ricordi di latte col Nesquik è planato sull’analfabetismo dei social come i libri di Fabio Volo sui trentenni complessati. Con quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così, che abbiamo noi che abbiamo visto Christopher Robin, il Pooh dei meme ha dismesso i panni del tenero orsetto che dice cose elementari, vive avventure bambinesche ed è amico di tutti, per indossare quelli del saggio Pooh, maestro di vita che ne ha viste di cose che voi Tigri non potreste immaginarvi, e che – pensoso come chi è stato buttato in mezzo ai porci e ne è uscito capocollo – distribuisce perle dai cestoni del discount.

Non c’è da stupirsi che Pooh sia il nuovo Morrison: laddove in tempi di ribellione e consapevolezza Jim apriva porte della percezione, e poi quel che trovavi di là era affar tuo, Winnie offre il soffice comfort del percepito, avvolgente e senza fastidiosi approcci adulti, profondità reali o scheletri nell’armadio; con mezza frase pre-digerita potrai ricevere le endorfine dei like e sentirti per mezz’ora il più in gamba della kumpa; magari ci scappa pure l’orgoglio di papà che vendette il suo unico cappotto per comprarti l’abbecedario, ma ne è valsa la pena per vederti pubblicare un orsetto che dice “Come si diventa una farfalla? Devi desiderare di volare così tanto da rinunciare a essere un bruco”.

Altri prima di Pooh avevano provato a spodestare Jim e le sue porte aperte, ma quel che mancava loro era l’immedesimabilità, perno di questo tempo cretino: Einstein era pur sempre Einstein, anche se il “suo” test destinato all’1% più intelligente non ha mai lasciato interdetto nessun normodotato sopra i 6 anni; i filosofi, i grandi autori e gli artisti si portano dietro un bagaglio di vizi e sofferenze interiori che mal si sposa con le foto col mojito in spiaggia per far invidia ai colleghi; gli intellettuali, poi, con quel vizio di essere interrogativi e non assertivi, dove diavolo vogliono andare?

Invece guardate Pooh, guardate la sua innata bontà: sempre sereno, sorridente, resiliente; saggio ma anche tenero, profondo ma ridanciano, intelligente e sempre affamato di miele. Proprio come me. Uguale uguale. No, che c’entra se ieri volevo affondare i barconi e ho mandato dei sicari a casa dell’insegnante che ha dato 4 a mio figlio? Io sono proprio come Winnie the Pooh, magnanimo e poetico; è il mondo crudele là fuori che mi risponde “Bravo bravo, noi condividiamo. Ma ora siamo davanti alla Corte d’Assise e lei è imputato di sedici omicidi”.

Un sentito ringraziamento a @bg00101010 per avermi concesso l’uso delle immagini di Winnie Pacciani e Pooh Vanni. Non avrei potuto trovare miglior chiusura.


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