Come cliché sulla terra rossa

Manie collettive, esultanze perdute, posti vuoti, carote ammosciate e bastioni di Orione

Sono terminati gli Internazionali d’Italia, quel torneo durante il quale gli italiani dismettono i panni da esperti di fuorigioco per indossare quelli da veterani osservatori di palline gialle, reti basse e tie-break; tutti in piedi sul divano per un passante sul filo del corridoio, a mangiarsi le unghie sulla seconda di servizio e a rifiutare inviti a cena per non perdersi le sbuffate di terra battuta sugli smash.

Non è certo una novità che la gente riscopra passioni sportive in corrispondenza di eventi importanti – e il caso del tennis è uno dei meno ridicoli; niente a che vedere con fruttivendoli tirolesi che millantano un passato da skipper durante l’America’s Cup – ma queste fantomatiche passioni, nel bel paese, si accentuano di fronte a due precise casistiche: la partecipazione di atleti italiani e il fatto che il torneo si tenga in Italia. Siamo irrimediabilmente provinciali, e per questo ci interessiamo allo sport con lo stesso approccio dei giornali locali che mettono in prima pagina l’infarto di un musicista straniero perché, ehi, è proprio nella nostra città che è quasi morto! Non è splendido?

Ma non è del povero Robert Fripp che voglio parlare; non oggi, perlomeno. Gli Internazionali d’Italia, dicevamo. La Sinner-mania che da qualche tempo coinvolge anche i sassi è stata per un paio di settimane causa della tempesta perfetta, al punto che perfino la derelitta Rai di meloniana fattura si è adoperata per accaparrarsi i diritti delle partite. Tutti gli altri tornei tennistici dell’anno passano su Sky senza che a Saxa Rubra si faccia un plissé, né tantomeno nei salotti di buona parte di chi fino all’altroieri discettava del rovescio di Alcaraz, ma per la terra rossa dell’Urbe gli italiani si raccolgono sotto un’unica bandiera, una speme, coi polsini di spugna e la polo Lacoste di fronte alla TV.

Giacché questi venti di passione sono meno consistenti di un servizio delle Iene, nessuno dei neo-invasati della racchetta segue le partite per godere di piacevoli momenti di sport, ma soltanto in funzione dell’idolo del momento da tifare furiosamente e nulla più. La Rai lo sa, e infatti trasmette solo le partite degli italiani, vantandosi pure della scelta di snobbare atleti non italici. E io lo so che l’abitudine e i governi con la fissa del patriottismo vi han tolto la percezione di tale assurdità, ma immaginate che dell’Eurovision, invece di 15 ore di diretta in tre serate, fossero andate in onda soltanto le esibizioni di Lucio Corsi, e per il resto programmi di Vespa o repliche di Don Matteo.

Sono immagini forti, me ne rendo conto; prendetevi un attimo per assimilarle.

Purtroppo, da quando caput mundi ha smesso di significare qualcosa – all’incirca da Meucci in poi – viviamo di provincialismo e stereotipi dicendoci che è normale; l’abbiamo sempre fatto, a dire il vero, ma l’epoca idiota e tragicamente al verde che viviamo riesce a peggiorare ogni cosa, soprattutto quelle che nel secolo scorso si chiamavano età adulta e professionismo.

Nel novecento la TV trascinava le masse, mentre oggi – come tutti gli altri media, rimettete in tasca la parola “boomer” – è costretta a rincorrerle: si mandano in onda i telegiornali con gli hashtag in sovrimpressione, si spezzettano i monologhi in pillole da 40 secondi per premettere a fragolina89 di andare su Twitter a dire “ho visto Benigni, vergogna, aboliamo il canone!”, si mandano in proscenio presentatori in doppiopetto a leggere commenti social scritti sui cartoncini e a dire “seguiteci sui nostri canali”, si misura la bontà dei programmi in numero di interazioni (che è come misurare la bontà di un arbitraggio dal numero di urla dalle curve) ma soprattutto si lasciano a casa i professionisti per affidare i microfoni ad adulti anagrafici in preda a ormoni adolescenziali. Non sia mai che la deontologia per un quarto d’ora impedisca al pubblico di sentirsi rappresentato.

Ora il sillogismo: se la TV imita il pubblico, e il pubblico sta a casa col costume da carota a fare riti vudù con il pupazzetto di Alcaraz, come si comporteranno i telecronisti? Esatto. E più Sinner passava i turni a Roma più io ero rincuorato che Pizzul e Galeazzi non debbano più sopportare tutto ciò. Per di più negli ultimi anni la TV si è inventata il “commento tecnico”. Nel secolo scorso, in terza elementare ti avrebbero spiegato che fare un commento tecnico è esattamente il mestiere del telecronista, ma siamo in una versione di Fahrenheit 451 riservata ai dizionari, perciò i già esasperati telecronisti vengono affiancati da ex tennisti; ex tennisti che, per ovvie ragioni, sono ancor più coinvolti della signora Pina che gira il sugo augurando la rottura del menisco a chi osa mettersi sulla strada verso la gloria di San Jannik.

Il risultato è l’Italia intera riassunta a mezzo televisivo: un’apoteosi di cliché, bassa tifoseria e totale mancanza di rispetto per giocatori e senso dello sport. Tra un “Grande!”, un “Noooo!” e parecchi “Aaaaah!”, durante le partite favorevoli le voci Rai ridacchiano e parlano dei fatti loro (intanto Ruud è al servizio, ma chissenefrega); durante le partite sfavorevoli, invece, si lanciano in interessantissime disamine su un’eventuale sconfitta, che mica sarebbe merito dell’avversario – figuriamoci – è perché il Nostro è stato fermo per squalifica, e poi l’altroieri sul 4-2 si è toccato il polpaccio, sicuramente c’è un risentimento muscolare, un infortunio, un’invasione di cavallette, non è colpa sua, lo giuro!

Ai cliché da tifo esasperato, poi, si aggiunge uno stereotipo talmente palese da farmi quasi cedere all’uso della parola “patriarcato”: Jasmine Paolini trionfa al singolo femminile, in un campo centrale del Foro Italico sul quale i cameraman cercano di tagliare l’inquadratura per non mostrare i numerosi seggiolini vuoti; lavoro di taglio a cui sono costretti anche il giorno dopo, quando Paolini e Sara Errani si portano a casa pure il doppio femminile. Due gloriose vittorie tricolori alle quali mamma Rai non riserva neppure la diretta su rete ammiraglia, e dopo le quali tanto i telecronisti quanto spettatori e commentatori social riservano esultanze misurate, applausi blandi e in generale un entusiasmo da torneo di paese piuttosto che da doppia finale del WTA 1000, in attesa di poter celebrare coi mortaretti il trionfo dell’unico vero imperatore: Marco Aurelio dell’unico vero campione: Jannik Sinner. E invece.

Ho visto cose, poche ore dopo sul medesimo terreno di gioco, che voi umani non italici non potreste immaginarvi: numeri uno del mondo sconfitti in due set tra lo sconforto generale; vendette karmiche bloccare in gola le grida di vittoria; tifosi da combattimento in fiamme nei costumi da carote mosce; telecronisti speranzosi affondare a suon di palle break e inghiottire le esuberanti risatine dei turni precedenti; ho visto supercazzole gamma balenare nel buio vicino alle porte del puerilismo da “vincitore morale”; e tutte queste esultanze risparmiate quando vincevano le donne andranno perdute nel tempo, come cliché sulla terra rossa.


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