
Si può essere scorretti con una barzelletta di Pierino? Si può rompere la quarta parete in un romanzo? Si può essere comico, showman, attore, regista e pure scrittore, rimanendo dopo tanti anni lo stesso coglione? Si può mostrare talento senza bisogno di scomparire? Si può raccontarsi inventando? Si può aver memoria di copioni di 30 anni fa in un’epoca in cui ai meme del mese scorso servono le didascalie? Se lo domandano, o forse rispondono, Mirko e Marco, i protagonisti de “Il talento degli scomparsi”, romanzo di Claudio Bisio uscito qualche mese fa e che ho da poco finito di leggere con una voracità che non mi capitava da tempo.
Mirko e Marco vivono due vite che si somigliano pur essendo distanti, di una distanza che solo l’appartenere a generazioni diverse può dare; si sfiorano, le avventure di Mirko e Marco, si incrociano, si accavallano e si mescolano finché non è più chiaro chi sia chi e chi stia raccontando cosa. E in mezzo a queste due vite – che poi sono vite normali, di uomini e donne normali, con problemi normali, incomprensioni normali, paranoie normali, un sacco di cose normali e qualche intrigo internazionale – c’è Claudio. Proprio lui, Claudio Bisio. Non è neanche un nome d’arte; sulla carta d’identità c’è scritto: Claudio, vaffanculo! Cioè, no, vaffanculo non è scritto, però avete capito.
O forse no, non avete capito. Perché ciò che leggiamo non racconta mai la stessa cosa a chiunque, e per percepire il significato di quel “Claudio, vaffanculo!” dovreste aver visto uno spettacolo teatrale di 30 anni fa, ricordarlo abbastanza bene da rintracciare quelle esatte parole, e infine ridere di una risata diversa, che è sì bontà della battuta, ma anche bagaglio culturale. Nella desolante neolingua di questo secolo si parlerebbe di “diversi livelli di lettura”, giacché il bagaglio culturale è discriminante, e siccome discriminare è una cosa brutta brutta che non si fa, il dettaglio messo lì per essere colto da chi ha precisi riferimenti diventa un “livello di lettura” da spiegare in termini trasversali al dodicenne che segue i TikTok e a sua nonna che guarda Gramellini, per la felicità inclusiva dei social, facendo la fine di ogni barzelletta spiegata dall’inizio dei tempi.
Per fortuna, però, dei social e delle neolingue Bisio se ne fotte, e fa ciò che sa fare senza bisogno di chiamarlo “performare”: osserva questo secolo con gli occhi di chi ha conosciuto quello scorso e scrive un racconto che diverte ed emoziona anche senza bisogno di “livelli di lettura” da far didascalizzare a intellettuali a noleggio, e poi ci mette tutto sé stesso. Non soltanto infilandoci esperienze proprie e persone reali subito “svelate” a favor di promozione, ma anche sparpagliando qui e là autocitazioni, battute di repertorio, scampoli di frasi, a volte solo singole parole, per il gusto di giocare con lettura e bagaglio, strizzare l’occhio a chi capisce, e chi non capisce cazzi suoi.
Così, mentre uno dei protagonisti si chiede quante lacrime possa versare un bambino, la lettura emoziona ma il bagaglio (se lo si ha) riporta a “I bambini sono di sinistra” e segna un punto in più sui condotti lacrimali; quando vengono nominate la pista Polistil e Paola Pitagora, chi non sa fila dritto e va avanti, chi sa sorride pensando a “Aspettando Godo” e alla Pitagora che nella pubblicità di Topolino urlava proprio “Bisio!”, mica un altro nome; quando dal nulla compare la parola “prossemica”, c’è chi la va a cercare sul vocabolario e chi si ricorda di Watzlawick e della prossemica che diventa struscio. E potrei andare avanti per altri quattro capoversi, ma senza bagaglio vi sarete già persi.
Insomma, serve cogliere tutti ‘sti riferimenti e aver visto tutto quel teatro per apprezzare ‘sto romanzo? Assolutamente no, ed è proprio per questo che dovreste leggerlo: perché “Claudio, vaffanculo!” fa ridere anche senza spiegazione, e lo fa dal secolo scorso.
Forse è proprio questo il talento degli scomparsi.






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