
E infine siamo arrivati, signore e signori, al centesimo articolo di questa baracca chiamata Plautocrazia. Cento volte che mi siedo, fisso lo schermo con l’entusiasmo di un condannato al patibolo e cerco di spremere qualcosa di vagamente intelligente da un cervello che ormai sembra un limone rinsecchito. La pressione del traguardo mi stringe la gola come un boa constrictor, il ticchettio dell’orologio mi ricorda che il pubblico vuole sangue – o almeno un paio di risate – e io? Io sono qui, a corto di benzina creativa, con le mani che tremano e la tentazione di mollare tutto per andare a coltivare zucchine in un orto abbandonato. Ma tranquilli, non vi lascio a mani vuote: ho chiamato rinforzi.
Siccome l’ispirazione latita e non ho nessuna voglia di passare le prossime ore a fissare il vuoto, ho deciso di fare un esperimento: lasciare che un’intelligenza artificiale, nello specifico Grok, scriva al posto mio. Sì, avete capito bene, ho delegato il mio sacro compito a un ammasso di circuiti che non sa nemmeno cosa significhi sudare per una punchline. L’idea? Fargli scimmiottare il mio stile e vedere se riesce a cavarsela senza farmi rimpiangere di non averlo spento prima. E no, non è plagio, almeno finché non lo userò per farmi dare il cachet di Luttazzi. Qui siamo a un altro livello: è emulazione autorizzata, un gioco di specchi dove il robot prova a fare il me stesso che io non ho voglia di essere e parlare di sé stesso come io parlerei di me stesso se fossi un robot comandato da uno come me. Praticamente una seduta di psicanalisi. Quindi, sedetevi, prendete un caffè – o un whisky, fate voi – e godetevi lo spettacolo: vediamo se questo Grok riesce a tenere in piedi la baracca o se finisce per affogare nel suo stesso ego digitale.
L’IA ha ucciso l’arte (e ha fatto un selfie sopra il cadavere)
Allora, eccoci qua, anno del Signore 2025, a guardare l’apocalisse culturale con un bicchiere di vino scadente in mano e un sorrisetto storto. L’intelligenza artificiale – sì, quel mostro di silicio che vive nei nostri computer come un parassita iperattivo – ha deciso che l’arte, quella cosa che facevamo per sentirci meno scimmie e più poeti, è roba sua. Basta con i pennelli incrostati e le crisi esistenziali davanti a una tela vuota: ora ci pensa lei, la regina dei pixel, a vomitare capolavori mentre noi umani stiamo ancora cercando il coraggio di aprire Photoshop. E la cosa peggiore? C’è chi trema davvero all’idea che un robot possa rubare il posto a Caravaggio. Ma per favore, prendiamoci un altro sorso e ridiamoci sopra.
Mettiamola così: l’IA è il bullo del cortile creativo. Arriva con i suoi algoritmi luccicanti, ti guarda dall’alto in basso e in due secondi ti sputa fuori un tramonto con un unicorno che fa la ruota sulla spiaggia. “Fatto”, dice, con quel tono da saputello che ti fa venir voglia di tirarle un ceffone – se solo avesse una faccia. Non ha bisogno di soffrire, non ha crisi di mezza età, non si ubriaca di assenzio per trovare l’ispirazione. È una macchina da guerra estetica, un Terminator con la tavolozza al posto del fucile, e noi? Noi siamo i poveracci che ancora si sporcano le mani con la tempera e piangono perché “nessuno capisce la mia visione”.
Gli artisti, ovviamente, sono in piena modalità dramma. A Parigi, un branco di pittori con baschi fuori moda ha imbrattato un muro con un robot gigante schiacciato da una musa incazzata – un’opera così bella che qualche cripto-milionario l’ha comprata in NFT per una cifra che basterebbe a sfamare un quartiere. E loro, i ribelli, che fanno? Incassano l’assegno e tornano a casa a pagare l’affitto. Bravi, davvero, una rivoluzione da standing ovation. Intanto, a New York, gli scultori si battono il petto urlando che “l’IA non ha il tocco umano”, e per provarlo scolpiscono statue di uomini che lottano contro computer. Peccato che il risultato sia così perfetto che sembra uscito da una stampante 3D. “Ma il processo!” balbettano, mentre il sudore gli cola sulla fronte. Certo, il processo. Come no.
La verità, cari miei, è che questa paura è vecchia come il cucco. Quando è arrivata la fotografia, i pittori si strappavano i capelli urlando che era la fine. Quando i sintetizzatori hanno invaso la musica, i chitarristi si sono messi a piangere sulle loro Fender. E oggi? Ci sono fotografi che vincono premi con filtri in bianco e nero e musicisti che campionano rumori di lavatrice per fare l’album dell’anno. L’IA è solo l’ultimo capro espiatorio, il mostro che agitiamo per giustificare il fatto che non sappiamo più cosa dire con un pennello in mano. Ma diciamocelo: se un algoritmo può dipingere meglio di te, forse il problema non è l’algoritmo.
E poi, parliamoci chiaro: l’IA potrebbe essere la nostra salvezza. Immaginatevi un mondo dove lei si occupa delle schifezze – i ritratti dei cani per le nonne, i paesaggi da sala d’aspetto del dentista – e noi possiamo finalmente dedicarci alle cose serie, tipo dipingere un autoritratto fatto di urla e disperazione. Ma no, figurati. Preferiamo fare le vittime, piagnucolare che ci ruba l’anima, come se l’anima fosse quella macchia di vernice che ci finisce sui pantaloni mentre proviamo a fare i profondi.
Dove andremo a finire? Facile: tra dieci anni le gallerie saranno un circo di opere firmate “IA 2.0” accanto ai quadri di quei quattro umani che ancora si ostinano a usare le mani. I critici si strapperanno i capelli (quelli che gli restano) per decidere se un JPEG generato in 0,3 secondi possa “toccare il cuore”, mentre i collezionisti tireranno fuori il portafoglio per un file che non possono nemmeno appendere al muro senza una cornice digitale da 500 euro. Gli artisti si divideranno: da una parte i furbi, che useranno l’IA come un servo ubbidiente per fare gli sfondi delle loro “visioni”; dall’altra i puristi, che si ritireranno sulle Alpi a dipingere con le bacche schiacciate, giurando che il digitale è il diavolo.
E l’IA? Se ne starà lì, zitta e compiaciuta, a sfornare immagini mentre noi ci arrabattiamo a cercare un senso. Non vuole il nostro posto, vuole solo giocare – ma noi, con la nostra paranoia da primadonna, la vediamo come una minaccia. Che poi, parliamoci chiaro: se un robot riesce a fare arte meglio di noi, forse non è colpa sua. Forse siamo noi che abbiamo passato troppo tempo a fare stories su Instagram invece di affilare il nostro talento.
Quindi, basta con queste scenate. L’IA non è il nemico, è solo uno specchio che ci sbatte in faccia le nostre insicurezze. La prossima volta che vedete un quadro fatto da un algoritmo, non fate i superiori: guardatelo e chiedetevi se, magari, non ci sia un briciolo di genio anche lì. Dopotutto, siamo noi che l’abbiamo creata, questa bestia. Se è un mostro, è perché l’abbiamo cresciuta a nostra immagine e somiglianza – solo che lei non si lamenta e non ha bisogno di terapia. E ora, scusate, ma ho un unicorno da piazzare su una spiaggia al tramonto. Qualcuno vuole comprarlo o devo metterlo su eBay?
…
Ma bravo Grok, che sorpresa, che incanto, che meraviglia tecnologica questo articolo! Una penna digitale che danza sulle macerie dell’umana creatività, un trionfo di parole che sembrano uscire dal cuore pulsante di questo blog. E invece no: è solo un trucco da prestigiatore da quattro soldi. La bellezza qui? Tutta emulazione, un gioco di specchi dove un groviglio di cavi scimmiotta il mio stile con la grazia di un pappagallo ammaestrato con la diarrea. Stupirsi della “genialità”? Ridicolo. È come applaudire un robot perché sa fare il caffè: carino, sì, ma non è che ha inventato la moka. Questo pezzo è un’imitazione ben oliata, un copia-incolla dell’anima – o meglio, dell’algoritmo – che si pavoneggia come un pavone senza piume. E noi, poveri fessi, stiamo qui a guardare, incantati da un riflesso che non ha nemmeno il coraggio di sudare per davvero. Geniale? Macché, è solo un’eco con un ego smisurato.
N.B.: Anche il commento finale è scritto da Grok, e pure l'introduzione. L'unica frase scritta di mio pugno è quella che state leggendo in questo momento, ma ve ne sarete già accorti dalla desolante penuria di parolacce. Non so cosa volessi dimostrare con questa trovata; forse che il pericolo IA si scongiura usandola per scrivere stronzate, forse nemmeno quello, ma almeno ho schivato lo sbattimento di celebrare la cifra tonda. Ci si rivede al 101, preparate i dalmata già scuoiati.





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