La guerra delle pernacchie

Fabbri, Meloni e la scorrettezza del potere che invade gli spogliatoi della satira

È guerra aperta del potere contro la satira. No, non mi riferisco a qualsiasi pagliacciata stia facendo Trump mentre scrivo, vi ho già detto che non ne parlerò più. La guerra aperta è molto più vicina a noi, e molto più subdola.

Se dall’insediamento del governo Meloni gli spunti per la satira sembrano aumentati in maniera esponenziale, dall’altro i più svegli (ovviamente parlo di me, qui l’intelligente sono io, capito??) si saranno accorti che dietro l’apparente stupidità genuina di personaggi come Giuli, Valditara o Pozzolo c’è un chiaro intento, tutt’altro che politico: fare terra bruciata intorno alla satira a suon di iniziative grottesche. Il nuovo capitolo di questa guerra ormai dichiarata – che io avevo già denunciato, ma voi miscredenti non mi date mai retta – passa addirittura per la premier, e nasconde una strategia devastante che mette in pericolo tutti noi.

In un video pubblicato ieri sui suoi social, Daniele Fabbri ha raccontato di aver ricevuto una querela da Giorgia Meloni per un vecchio episodio del suo podcast “Contiene parolacce”. E fin qui sarebbe pure prassi: i governanti impreparati usano da sempre la loro posizione per colpire chi li sfotte, laddove politici di mestiere si sarebbero fatti mandare il manoscritto originale per incorniciarlo. Il punto è che le parole incriminate, che avrebbero causato “profondi strascichi sulla psiche” alla povera Giorgia, sono del tenore di “puzzona”, “peracottara” e “caccolosa”; termini da cui chiunque non sia stato svezzato a uranio impoverito smette di essere turbato intorno ai 5 anni. Ma la premier che il Gibuti ci invidia no; lei è stata addirittura danneggiata a livello psichico per anni (l’episodio è del 2021) e per questo trascina il comico in tribunale e chiede 20.000 euro di risarcimento. Vi vedo già questionare sul potere che cerca di intimidire chi esercita la libertà di espressione e di satira, e certo, c’è anche questo, lo ribadisce Daniele nel suo video, ma è nella scelta infame di querelarlo per le frasi infantili che sta il vero colpo basso, la vera arma letale, il vero atto eversivo.

Nel suo special Netflix, Saverio Raimondo racconta come la censura sia il vero punto di arrivo di chi fa satira, che se non ti hanno mai querelato non sei nessuno, e che “i comici satirici nello spogliatoio si misurano le querele, e se non ne hai fanno battute sul tuo uccello”. È con tale immagine bene in testa che in queste ore penso al povero Daniele Fabbri, stand-up comedian di spessore, fiero ateo anticlericale, robusto antifascista e battutista di gran classe, che si vede querelato dalla Presidente del Consiglio in persona, magari pensa già all’invidia dei colleghi denunciati solo da Gasparri, pregusta la soddisfazione di gridare “vogliono mettermi a tacere perché dico la verità”, ma poi apre la busta e scopre che il problema erano un paio di parole da repertorio di Pio e Amedeo.

Vergogna, presidente. Non è corretto. Non si fa. Questo non è il Vietnam, ci sono delle regole. Qui c’è gente con una reputazione da difendere, mica siamo tutti Osho.

Nella guerra delle pernacchie, Meloni ha scelto l’artiglieria pesante; ha scelto di varcare una linea che non andrebbe mai varcata, condannando un comico satirico ad essere bollato come quello querelato per aver detto “fognarola”, e tutto ciò è inaccettabile. Qui non è solo Fabbri a subire intimidazioni, non è più solo il diritto di satira ad essere sotto attacco, ma il senso stesso di civiltà, che passa per il sacrosanto diritto a fare il proprio mestiere liberamente, senza rischiare le battute sull’uccello nello spogliatoio dei satiri.


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