
Chi l’avrebbe mai detto che l’idea dei Dilemmi Satirici sarebbe durata fino all’episodio 2? Pazzesco. Eppure eccomi di nuovo qui ad ammorbarvi parlando di satira, o perlomeno a provarci. Dopo aver esposto una strampalata teoria fatta di bicchieri rotti e insonnia, oggi voglio provare a mantenermi sul livello metaforico e ragionare su un aspetto che – in un’epoca in cui le élite culturali si autoflagellano alle fiere editoriali andando in cortocircuito sui filosofi maneschi e i santoni indiani della Magliana pagano l’affitto con le sovvenzioni ministeriali – pare essere allo stesso tempo dimenticato e onnipresente: l’equilibrio.
La satira è per certi versi un esercizio di bilanciamento, che non significa equidistanza o par condicio, anzi; sarebbe stupido credere che l’equilibrio satirico sia dare un colpo al cerchio e uno alla botte. Per quello ci sono Brignano e Siani, e mi pare più che sufficiente. C’è però una questione di equilibrio, o forse di equilibrismo, senza la quale qualsiasi tentativo di satira, anche con le migliori intenzioni, è destinato a morire della morte meno dignitosa possibile: quella di iniziare a credere alle iperboli, di passare dallo scherno alla convinzione, dal ribaltamento al rivoltare la frittata a proprio vantaggio, dallo scardinare i pregiudizi ad alimentarli; insomma, si nasce Marziale e si muore Grillo, Osho o guru equivalenti.
La satira – finché resta tale – si nutre di esagerazioni e iperboli, ma con i piedi ben piantati a terra; usa gli stereotipi e il lessico della politica, la rincorre ossessivamente, ma sempre e solo per sfiorarla, mai per toccarla o farsi toccare; palleggia con gli assolutismi senza mai diventare tiranna; gioca con gli orrori, le paure e le brutture, ma senza cedere all’imbruttimento. Parafrasando Nietzsche, la satira è stare in bilico sull’abisso per guardarci dentro, saltando fuori un momento prima che l’abisso guardi dentro di te e ti faccia fondare il Movimento 5 Stelle. Ecco, è su questa immagine del satiro come equilibrista sull’abisso che vorrei concentrarmi.
Penso a quei pazzi scriteriati che in bilico sull’abisso ci stanno davvero, fisicamente, facendo traversate su un cavo sospeso tra i palazzi o tra le cime delle montagne, e penso che è ovvio lo facciano per il brivido del percorso, non certo per il desiderio di ritrovarsi sul palazzo o la cima opposti. Per il viaggio, non per la meta, direbbe quello. E così è per la satira, che si prende gioco del potere per il gusto di farlo, per il piacere un po’ proibito di indispettire chi crede di non poter essere toccato, ma non ha mai facoltà di sconfiggerlo, quel potere. Anzi, è proprio quando il satiro dismette il piacere del viaggio e si concentra sul traguardo, quando inizia a credere che i paradossi della comicità possano diventare battaglie reali, che finisce a fondare movimenti politici o rinchiudersi in torri d’avorio dalle quali dare lezioni alla plebaglia a mezzo stampa.
Rimanendo sulla similitudine col cavo teso e le altezze vertiginose, penso allo strumento più importante, senza il quale le traversate finirebbero dopo due passi: il bilanciere. Se avete presente l’immagine dell’acrobata sul cavo sapete che più grande è il percorso, più alta è la cima e più profondo l’abisso, più il bilanciere deve essere lungo per intercettare piccole variazioni nell’aria e prevenire le cadute, e così di colpo una buona similitudine sembra prendere le sembianze di una metafora azzeccata. Non vorrei farla troppo seria, ma questa cosa del bilanciere che più è delicata la situazione e più deve riuscire a toccare gli estremi opposti non riesco a levarmela dalla testa.
Come dicevo, non è questione di par condicio, né di cerchiobottismo, figuriamoci, ma anche nella satira funziona così. Se vuoi fare satira, se vuoi mantenerti sopra l’abisso per poterci guardare dentro, devi essere capace di far pendere il bilanciere sia a destra che a sinistra. Checché ne dicano i santoni col bruciore di culo o i direttori di giornale col vizio dell’autoumiliazione a mezzo video, non esiste una “satira di destra”, né tantomeno una “satira di sinistra”. Esiste solo la satira, che è un cavo teso che non appartiene a nessuno, ma ti obbliga a oscillare tra i due estremi se non vuoi fare la fine di Pio e Amedeo.
Di tutti gli ostacoli che deve affrontare chi fa satira – sia che con l’ironia ci paghi le bollette sia che ti ci intrattieni infruttuosamente girando il sugo come il sottoscritto – il più pericoloso da gestire è proprio l’equilibrio. Lo è perché è un ostacolo che non sparisce una volta superato, ma si ripropone costantemente ad ogni passo, e poi perché, laddove perderlo porta le medesime tragiche conseguenze per chiunque, i contrappesi sono invece estremamente soggettivi. Non esiste una formula fissa, una proporzione governo-opposizione che dice a quante battute sulla Meloni corrispondano le pernacchie alla Schlein, né quanti Fassino servano per compensare un Gasparri o quanti Augias per fare da contrappeso alle De Filippi; anche se qualcuno si illudesse di aver “preso le misure” sarebbero comunque misure sue, che non varrebbero per nessun altro. Ed è qui, il grande Bardo direbbe, che c’è l’inghippo.
Qualche giorno fa ho visto su YouTube un TEDx in cui Filippo Giardina parla dell’autoironia, e la descrive come una scalata in montagna con 3 livelli: ridere dei propri difetti fisici, ridere dei propri difetti caratteriali e ridere delle proprie convinzioni. Sorvoliamo sui primi due – fingendo di non vivere un’epoca in cui i calvi permalosi si sono inventati la parola “tricobullismo” – concentriamoci sull’ultimo e diamo per scontato di saper ridere delle nostre convinzioni (questo è un corso avanzato, non il salotto di Massimo Boldi). La domanda è: sapere di saperlo fare è sufficiente o bisogna costringersi a farlo? Basta sapere di poter eventualmente strappare una battuta sulla nostra [parte politica / ideologia / religione / squadra di calcio / preferenza sessuale / allucinazione generica] per sentirsi in equilibrio? Basta la sola esistenza di un lato del bilanciere per non scoprirlo incancrenito dal poco utilizzo e cascare nell’abisso in cui nuota il Pucci?
Ecco, io penso che l’unica risposta possibile per chi vuole fare satira sia un secco no, senza mezzi termini. Non basta saperlo fare, bisogna costringersi a farlo e, quando si crede sia sufficiente, farlo una volta in più. Per ridere delle convinzioni altrui è sufficiente osservarle mentre si manifestano e il resto vien da sé, non serve allenamento, tutt’al più si tratta di esercizi di stile; ma se si vuole evitare la cancrena e il conseguente baratro è necessario forzare la mano anche e soprattutto con le proprie, a costo di portare a casa pochi like o di ritrovarsi sotto stigma dalla propria bolla social per aver osato mettere in dubbio la santità di un Papa, qualunque esso sia.
La mia teoria è che se satira deve essere, scrivere battute e ricevere insulti da entrambi gli schieramenti – politici o culturali che siano – non è necessariamente una misura di bontà, ma riceverli solo da una parte è sicuramente sintomo del contrario. E se in teoria è facile essere d’accordo, nella pratica è estremamente facile ritrovarsi nella calda bambagia dei giusti, cullati da un’idea di superiorità e dalle battute su Salvini che si scrivono da sole, dai pollici alzati di chi usa verbi come “asfaltare” o “blastare” e dagli screenshot del tweet passato in Top Ten a Propaganda. È facile veder aumentare i follower con una battuta su quelli di là e poi, per paura di perderli, tentennare nel fare una battuta su quelli di qua.
È facile ricordarsi del ruolo dissacrante della satira quando il potere è in mano a chi consideriamo avversario, ma lo è molto meno tenere in allenamento l’auto-dissacrazione per quando le parti si invertiranno. Anche se al governo ci fosse – ipoteticamente, s’intende – un’accozzaglia di craniolesi con idee distorte della storia e delle istituzioni, disprezzo malcelato per qualsivoglia concetto democratico o stato di diritto, una particolare tendenza a gridare al complotto e il vizio mai abbandonato di negare qualunque evidenza ricoprendosi di ridicolo ogni quarto d’ora, la satira non potrebbe (dovrebbe) comunque concentrarsi solo su di loro. Non per equidistanza, ma per sopravvivenza.
Tutta teoria, per carità, e neppure poi così certa, altrimenti che dilemma satirico sarebbe? Eppure nel piccolo della mia esperienza mi sembra di sentirlo sotto i piedi quel cavo teso, e più ricevo apprezzamenti dagli stessi per le battute che scrivo, più attendo spasmodicamente che quei like si trasformino in vaffanculo, in una sorta di sindrome dell’impostore al contrario per la quale devo sentirmi dare dello stronzo da chi mi apprezza per sapere di star facendo la cosa giusta, di non aver perso la capacità di toccare il limite con entrambe le punte del bilanciere, di poter guardare nell’abisso ancora una volta senza paura che l’abisso guardi dentro di me e ci veda quel che resta di Sabina Guzzanti.
Ok, credo che la rubrica mi sia sfuggita di mano un’altra volta, ma ormai la frittata è fatta e voi ci avrete fatto l’abitudine. Ditemi cosa ne pensate, se vi va, io nel frattempo vado a prenotare una seduta di analisi. O un esorcismo. Alla prossima!






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