
I dunque sono arrivati, accompagnati dai quindi, dai per cui e dagli allora, che sono tantissimi: cinquanta allora se sei in centro, centodieci se sei in tangenziale, centotrenta in autostrada; non c’è limite agli allora, o forse c’è, ma finché non vediamo la paletta dei carabinieri, che chissà perché si dimenticano sempre il secchiello, quanto sia il limite degli allora non ci interessa. Siamo interessati agli allora che ci riguardano – sempre che li abbiamo guardati prima noi, altrimenti cosa ci riguardano cosa, se non c’è stato uno sguardo precedente? – ma agli allora degli altri mica siamo interessati; se sono degli altri, beh, allora…
A forza di essere interessati (a noi) abbiamo finito per dimenticare di essere interessanti; si parla tanto del qui e ora – mica allora, proprio ora ora; minuto più, minuto meno – ma ci ostiniamo a usare i participi passati. Abusiamo dei passati e non siamo più usi ai presenti, anche se si avvicina natale; li vogliamo dare ‘sti presenti? Vogliamo dare il nostro presente? Non ci stiamo più interessando, che poi sarebbe un gerundio. Cosa ci hanno fatto i gerundi, per abbandonarli così e pensare solo ai participi? È una questione di participio, va bene, ma come participiamo? Tu participa bene, participa al presente degli altri e vedrai che nasceranno i gerundi intorno a te, dentro di te, o sul balcone, che comunque fanno sempre la loro figura quando fioriscono; però attento a non bagnarli troppo sennò al piano di sotto si lamentano. E dobbiamo sentirlo quel lamento, dobbiamo participare col gerundio a quel lamento, che dev’essere il nostro, anche se le urla arrivano da chi sta sotto; sotto il balcone che gocciola, sotto la pioggia, sotto esame, sotto i ferri, sotto la soglia di povertà, sotto le bombe, sotto un velo pietoso, uno dei tanti che sono stufo di stendere, voglio iniziare a scoperchiarlo, svelarlo, spietarlo.
Spieto, e su questa spietà spietata io fonderò la mia chiesa, che è fatta di moltissimi allora: allora, ci vogliamo sbrigare, ché il tempo stringe? Allora, lo capiamo che il male minore ormai è diventato maggiorenne? Allora, mettiamo via il passato, che è sempre la solita minestra, e iniziamo a nutrirci del presente? Allora, lo togliamo questo velo, invece di aspettare che un’altra donna iraniana venga arrestata per averlo tolto da sola? Allora, quante altre vite devono finire per dare un giro di vite alle guerre? Allora, ci sediamo al tavolo delle trattative a trattare la questione per intero e non a tratti? Allora, cosa aspettiamo? Allora? Quindi? Dunque?
I dunque sono arrivati e pesano come macigni, e non sto parlando di uccelli acquatici sovrappeso, intendo proprio le pietre, i sassi, i massi, i massì: massì, chissenefrega; massì, finché la cosa non mi riguarda; massì, è sempre successo; massì, se ne occuperà qualcun altro, non posso mica fare tutto io qui. In tutto questo menefreghismo disinteressante i dunque sono arrivati; sono arrivati e sono un indice, sempre che usiamo il dito giusto. Un indice di una certa importanza, che poi mica lo so quanto sia certa, certamente è un indice. Indice di successo, indice di gradimento, indice di sopportazione – che poi sarebbe il limite per cui prendiamo le multe – indice di rifrazione: alla luce, alle sfumature, a quel che succede fuori da noi e fingiamo di non vedere; scusi agente, ero distratto a guardare dentro di me e non ho visto fuori, non ho visto il cartello dei trenta allora e sono andato oltre il limite; ora che l’ho visto, e ho visto la sua paletta senza secchiello, sono fuori di me, ma se sono fuori di me prima o poi in me ci dovrò rientrare, altrimenti chi guida fino a casa?
Più del chi guida mi interessa il cosa guida: cosa guida le nostre decisioni, cosa guida la nostra intolleranza, cosa guida il nostro voto, sempre che andiamo a votare, qualcuno può accompagnarmi? Io sono fuori di me in questo momento e non posso guidare. Cosa guida gli slogan urlati, cosa guida il dibattito che ormai è solo battito: battito di pugni, battito di piedi, battito della fiacca, che a forza di battere i piedi poi le fiacche arrivano, battito di tante parti del corpo per pretendere, ma mai per tendere una mano, un cuore, un aiuto a qualcuno che non siamo noi. Cosa guida la politica che non è più politica, ma una ditta di traslochi che ogni cosa la risolve spostando: sposta gli equilibri, sposta il dirigente Rai che dà fastidio, sposta l’opinione pubblica per delegittimare gli scioperi, sposta i porti sicuri a centinaia di km per fare dispetto, sposta lo sguardo per non vedere, sposta la mano dopo aver lanciato il sasso, il razzo, la bomba; sposta i fondi, e a forza di spostare fondi non ha più un fondo da toccare e continua a precipitare. Siamo sull’orlo del precipizio, o l’orlo del percipizio, che rende meglio l’idea di come percepiamo le cose solo all’ultimo, e le maglie sono troppo larghe per poterle ricucire.
Eppure c’è un modo per ricucire, lo dovremmo sapere noi, popolo di sarti poeti e navigatori. C’è un modo per ricucire le maglie di questa collettività, che io preferisco chiamare cogliettività: cogli altri, cogli amici, cogli sconosciuti, cogli l’attimo per stringere le maglie, cogli l’occasione per le maglie senza aspettare i saldi, salda tu, i rapporti, i conti col passato, salda a stagno, che poi è dove nuotano i macigni; fatti saldatore. Non possiamo più aspettare il saldatore, noi dobbiamo diventare saldatori: saldatori di anime, e non parlo di cartoni giapponesi, parlo delle anime di chi sta di fianco a noi, davanti a noi, dietro, tutto intorno, anche se non lo conosciamo, come a teatro. A teatro sediamo con gente che non conosciamo e non rivedremo più, ma guardiamo nella stessa direzione, le nostre maglie si toccano, si uniscono, ridiamo e ci emozioniamo nella stessa cogliettività in cui cogliamo il senso e anche il nonsenso, che forse è più importante.
A teatro possiamo ricucire perché cogliamo il senso della realtà, ma cogliamo soprattutto il nonsenso da cui nasce la crealtà, che è un pensiero che non nega la realtà, non smette di credere nella realtà, ma ne crea una aggiuntiva per dare un altro punto di osservazione; così da quel punto possiamo essere non più solo credenti ma osservanti. La crealtà è un pensiero all’asta dei pensieri, all’asta per il miglior offerente o sofferente, insomma, per chi s’offre; è un pensiero laterale, un’idea parallela su cui fare evoluzioni, ginniche, mentali, sociali, basta che siano evoluzioni, perché i dunque sono arrivati e ci chiedono di evolvere. Di evolvere e volvere. Volvere l’attenzione, volvere lo sguardo, rivolvere, rivolversi a chi di dovere per chiedergli dov’era; dov’era quando le maglie si allargavano? Dov’era quando abbiamo perso il filo e smesso di cucire l’orlo del percipizio? Dov’era quando doveva?
I dunque sono arrivati e ci chiedono di rivolverci agli altri, che siamo noi quando siamo fuori di noi, come gli altri diventano noi quando vanno fuori di loro, e se anche loro sono osservanti osservano il vuoto che lasciamo ed entrano in noi per chiederci: “Allora?”.






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