
DISCLAIMER: se siete arrivati qui pensando che si parli del caro vecchio Ozzy, mi spiace dirvi che rimarrete delusi. A tutti gli altri, buona lettura.
Ho una piccola tradizione personale e familiare, che in quanto tale è molto più significativa di qualsiasi altra calata dall’alto o indotta per educazione, religione o contesto culturale. Ciò che ci creiamo volontariamente nel tempo è frutto di noi stessi, mentre le grandi tradizioni di cui tendiamo – chi più chi meno – a riempirci la bocca sono in fin dei conti soltanto un tentativo di sentirci parte di qualcosa di più grande di noi, che si tratti di un progetto divino, una corrente culturale, la rivoluzione proletaria, la superiorità della razza o il ritorno della grande Inter, ma non sono qui per spernacchiare le feste comandate e i capi ultrà. Sono qui per esporre un piccolo ragionamento che parte dalle zucche intagliate e arriva fino a Madre Teresa Lenny Bruce.
La piccola tradizione, dicevo, è che la sera di Halloween, ormai da anni, a casa mia si passa sul divano a guardare “Dracula di Bram Stoker” (sì, è banale, ma è questo il bello delle tradizioni personali: non c’è nessun obbligo di essere originali). Così anche giovedì sera, mentre le discoteche si riempivano di adolescenti in maschera e i bambini indispettivano le insicurezze di Pillon chiedendo caramelle agli estranei, io mi godevo quello che – Shelley, Lovecraft, King, so che mi perdonerete – secondo me è il racconto più importante della storia dell’horror, e il più indicativo di ciò che l’horror è nel profondo.
L’horror non è una questione di paura, spaventi buoni per far passare il singhiozzo o immagini truculente, e non è nemmeno una questione di mostri dall’oltretomba, poteri occulti o devozione a Satana. C’è tutto questo, ci può essere, ma è scenografia, contorno, stratagemma narrativo (o storytelling se vi fa sentire più moderni); l’essenza dell’horror è l’inquietudine che scava nell’intimo di ognuno, insinuando dubbi e suggerendo che tutte quelle brutture che tendiamo a demonizzare non siano poi così lontane o diverse da noi. La vera paura – l’ha sintetizzato meravigliosamente Donato Carrisi pochi giorni fa a Tintoria – è quella che viene da dentro, non da fuori; la paura sepolta in noi è ciò che rende efficace l’horror, ma anche la satira. Ok, ho fatto il passo più lungo della gamba, ma lasciatemi spiegare.
Nei giorni scorsi ho avuto modo di leggere diverse discussioni – se così ancora le vogliamo chiamare – riguardanti più o meno direttamente la satira, la comicità e le battute in generale, dai pipponi che si è dovuto sorbire un padre che ha pubblicato una foto ironica con raccomandazioni lasciategli dalla moglie prima di partire per una trasferta e lasciarlo solo col figlio per 4 giorni, fino ai democratici americani (ma pure i repubblicani col pepe al culo) che hanno perso la brocca per uno che di mestiere fa i roast e che è stato messo a fare il suo mestiere al comizio di Trump al Madison Square Garden. Con in testa i ridicoli strascichi di gente che inorridisce per le parole senza farsi domande sul contesto, giovedì sera ho visto Dracula e ho capito.
Ho capito perché i bigotti con la Bibbia sempre in bocca non sopportano Halloween; ho capito perché gli stessi bigotti, in alternanza coi bigotti di segno opposto, attaccano i comici ogni volta che sentono salire la gastrite; ho capito perché, di fronte a un uomo che ironizza sui ruoli parentali, le reazioni sono di schizofrenia sulla difensiva; ho capito perché, potendo certificare che Trump sia così incapace di distinguere i contesti da chiamare un roaster a un suo comizio, i suoi avversari hanno scelto di confondere il roast con il pensiero dei trumpiani (che peraltro sulla battuta di Porto Rico hanno gelato il palazzetto); soprattutto, ho capito il significato viscerale di un’idea che credevo aver interiorizzato già da tempo grazie a Lenny Bruce: la satira deve dire ciò che non si può dire, sempre. Per essere fedele a sé stessa, la satira deve (Bram, concedimelo) attraversare gli oceani del tempo per farti bruciare il culo.
So che sembra assurdo io abbia partorito ‘sto concetto guardando Gary Oldman, e probabilmente tutto ciò è soltanto una mia elucubrazione senza costrutto, ma il filo sottile che unisce la satira e l’horror è il fatto che si concretizzano solo in una profonda, profondissima umanità, svincolata dai canoni del “buongusto”: Dracula di Bram Stoker è una straziante storia d’amore – forse una delle più intense – e diventa orrore solamente perché evoca demoni e li umanizza, suggerendo alle nostre coscienze la possibilità del processo contrario; allo stesso modo, la satira dice cose tremende mettendole “a terra”, liberandole dall’idea che certi pensieri esistano solo nella mente dei cattivi, a solo appannaggio di oscure creature della notte, tra le nebbie della Transilvania mentre noi poveri Keanu Reeves virtuali non riusciamo nemmeno a concepirle, certe brutture, e i miei capelli bianchi che ieri non c’erano sono colpa di Tony Hinchcliffe e della sua battuta sull’isola di spazzatura.
D’altra parte, perché i credenti in un dio onnipotente dovrebbero essere infastiditi dalla versione a tinte scure del carnevale, se non perché le venature “demoniache” non hanno nulla di diabolico o di origine esterna, ma sono semplicemente una delle tante sfaccettature dell’animo umano? Perché una battuta estrema fatta da uno che di mestiere fa battute estreme dovrebbe turbare, se non perché sappiamo che da qualche parte, tra i mille istinti che giustamente reprimiamo per essere civili, quella frase indicibile c’è? Mi vengono in mente il bravissimo Andrea Pennacchi e il suo Pojana, che non potrebbe mai essere così efficace e ben riuscito se fosse un personaggio totalmente estraneo all’interprete. Pojana è dentro Pennacchi, come è dentro ognuno di noi, ed è così che funziona la satira da sempre: svela i mostri che abbiamo nel profondo, per ricordarci quanto sia facile caderne vittima e tenerci sull’attenti.
L’ho presa altissima, me ne rendo conto, ma se seguite gli sproloqui che scrivo su queste pagine virtuali già sapete quale sia il mio livello di paranoia sui dettagli. Ora che sto concludendo questo pezzo, che mi accorgo in questo istante sarebbe stato un ottimo spunto per un episodio dei miei Dilemmi Satirici, vedo passare sui social gli strascichi degli anatemi finto-cattolici contro Halloween e non posso non pensare a quanto amore ci sia tra le righe di un horror, e quanto orrore tra le righe di una porta chiusa in faccia ai bambini che giocano al carnevale dei mostri. Vedo nuove scomuniche di vario colore piovere sui satiri colpevoli di ridere di ciò che ci rende umani per non finire a credere di essere divini. Vedo il romanzo di Bram, mi torna alla mente un passaggio che forse sintetizza tutto il papiro che ho scritto finora, e trovo un finale che non sapevo di aver già scritto.
Ricordatevi sempre che se il riso bussa alla vostra porta e dice “Posso entrare?” non è vero riso. No!, il riso è un re, e viene come e quando vuole. Non chiede permesso a nessuno, non sceglie momento più adatto. Lui dice: “Eccomi”.






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