
DISCLAIMER: Il presente articolo urta volutamente le sensibilità di chiunque, manca di rispetto a qualsiasi idea di genitorialità biologica o sociale. È pensato per turbare i paladini del buonsenso, i cavalieri crociati del costrutto sociale, i residui della balena bianca e gli spiriti dei miei avi. È un'iperbole in cui i bambini sono solo oggetti da cannibalizzare per un fine retorico, come le ripicche dei tradizionali genitori divorziati o qualunque intervento al question time del Senato.
Il parlamento ha approvato la definizione di “reato universale” per la GPA, il cosiddetto “utero in affitto” che molte notti insonni ha donato a Gasparri, e io vorrei tanto scagliarmi contro una destra retrograda e incompetente, ma non riesco a smettere di ridere.
Non riesco a smettere di ridere per il cretinismo di gente che passa la giornata ad attaccare le invenzioni lessicali del politicamente corretto, e poi rilancia festante ‘sta boiata di definizione senza senso. Non riesco a smettere di ridere per la convinzione di poter mettere bocca su ciò che è legale o meno in un altro stato, e che ad avere questa convinzione sia chi straparla di sovranità nazionale 400 volte al giorno. Non riesco a smettere di ridere per la parola “universale” in bocca a politici eletti col voto di terrapiattisti e negazionisti delle missioni Apollo.
Come fate, voialtri, a trattenere le risate? Io davvero non ce la faccio, e in questo momento il mio pensiero va ai poveri giornalisti, parlandone da vertebrati, costretti per l’ennesima volta a trattare seriamente un’idea al cui confronto i marchingegni ACME di Willy il coyote sembrano ideati da Von Clausewitz. Come fate a restare seri di fronte alla Meloni che vuole dettar legge in tutto l’universo senza riuscire, non dico a pattugliare il globo terracqueo che le sta tanto a cuore, ma anche solo a gestire una chat WhatsApp coi suoi cani da passeggio? Seriamente, compagni, lasciamo perdere la Schlein e gli scioperi dei magistrati: iscriviamo la Meloni a una chat di classe di seconda elementare e aspettiamo un paio di settimane che dichiari forfait ritirandosi a Salò.
D’altra parte, se tutto ciò accade c’è una ragione trasversale tanto alla maggioranza e all’opposizione quanto al femminismo e al patriarcato, e questo è il punto in cui dovreste smettere di leggere se fin qui avete annuito o sorriso, e non volete finire per infilarmi buste con l’antrace nella cassetta della posta.
La ragione – che a ben vedere è anche la fonte primaria delle mie risate – è che la riproduzione e la genitorialità sono sempre, costantemente, trattate in modo ridicolo. Lo sono nel tentativo meloniano di imbrigliare l’universo e nella pomposità imperialista con cui viene raccontata ‘sta barzelletta da Senaldi e Belpietro; lo sono nelle frasi da Baci Perugina delle mamme su Facebook, che 4 minuti dopo la fecondazione dell’ovulo iniziano a rispondere “se non hai figli non puoi capire” pure al tizio che vende le caciotte al mercato; lo sono nelle commedie alla TV, da quando è finito Friends e nessuno è più stato in grado di offrire una sit-com sincera; lo sono quando Pillon e i suoi compagni di cilicio sventolano la Bibbia, e lo sono quando la sinistra dagli scranni del Senato fa discorsi sull’amore che neppure Nicholas Sparks, invece di insistere sulla giustizia sociale.
L’intero dibattito su figli e genitori sembra partorito dalla mente di un santone rastafari con l’hobby delle barzellette sconce e una particolare fissazione per il liquido amniotico. Da una parte aspiranti fruitori dello Ius Primae Noctis che legiferano sui corpi altrui, e dall’altra chi rivendica diritti dei singoli sul proprio, ma entrambi cercano con infiniti eufemismi di non chiamarli “corpi”. Entrambi fingono che si tratti di questioni ben più alte di pruriginosi istinti corporali e sociali che esistono dalla notte dei tempi. Di corpi si tratta, e di processi biologici comuni a qualsiasi altra specie di mammifero, pure i gatti che sterilizziamo per non dover pulire il pavimento o i cani di razza che facciamo riprodurre in eugenetica perché non perdano valore di mercato, salvo poi dare di matto e imbastire tribunali morali quando la riproduzione pianificata o il ricorso a pratiche scientifiche riguarda il vostro vicino di casa.
Un po’ troppo cinico, vero? E ancora non siamo arrivati alla ragione per cui sto scrivendo: mentre ridevo sguaiatamente per il reato universale ho avuto una visione ancora più cinica, e sono qui a proporvela. Ho sognato la vittoria definitiva del femminismo, una vittoria totale e la parola fine su migliaia di anni di dominazione maschile. Ho visto un futuro di parità tra i sessi – dopo un discreto quantitativo di whiskey, ma questi sono dettagli – e vi posso dire che l’unico modo per raggiungere quel futuro è ridimensionare la gravidanza, cancellarne il romanticismo, toglierla di mano alle religioni tossiche e al capitalismo che spinge sulla natalità a discapito delle donne, ridurla al semplice processo biologico che è una volta spogliata di costrutti sociali.
Malgrado le convinzioni di Adinolfi, la gravidanza è solo un fenomeno fisico, come tutti gli altri che sembravano avere un’accezione divina finché non è arrivato Piero Angela a spiegare al volgo il ciclo dell’acqua e la fotosintesi; è un processo fisiologico e in quanto tale replicabile con il dovuto sviluppo tecnologico. Abbiamo protesi per i menomati, sofisticati organi artificiali, esoscheletri per disabili e altre grandi invenzioni per arginare malattie, dolori e isolamento sociale, ma insistiamo a vivere nell’anatema del partorire con dolore; da qui la visione: a incatenare la condizione femminile all’ingiustizia sociale non è il governo, sono i figli, e se fossimo davvero la civiltà avanzata che pensiamo di essere li coltiveremmo, altro che partorire.
Lo so, sembro Asimov dopo il peyote, ma seguitemi: nessuna gravidanza a rischio, nessun parto doloroso, migliaia di medici obiettori resi del tutto inoffensivi, nessun rischio consanguineità dei nascituri texani; religioni di colpo orfane del concetto di missione riproduttiva della famiglia, nessuna “emergenza natalità” imbastita dal capitalismo che chiede nuovi schiavi, nessuno stigma sociale per le donne che non riescono a rimanere incinte; figli unicamente adottivi, niente più bigotti a considerarli figli di serie B, fine delle logiche di sangue o di razza; sparizione completa della possibile maternità come coefficiente di rischio nei colloqui di lavoro, fine della retorica sulla mamma che è sempre la mamma pure se è la Franzoni, parificazione dei ruoli parentali, azzeramento delle differenze tra coppie etero e omosessuali, conseguente inconsistenza del paradigma dei 2 genitori, adozione per i single indifferentemente dal sesso, fine del patriarcato.
Ora prendetemi pure per pazzo (io al vostro posto lo farei senza ripensamenti) ma l’enorme non detto dell’intera questione è che moralizzare la natura è materia per la letteratura e il teatro, non per la politica, almeno per quella che non prevede i manganelli. Quando il governo brinda al “reato universale” è a questa moralizzazione che sta brindando, non all’efficacia del decreto (che non esiste, ve la immaginate l’Interpol che invece di inseguire criminali internazionali si aggira nei centri di fertilità americani per perseguire qualcosa che là è perfettamente legale?). Con le donne svincolate dal religioso compito di giumente, quella di “donna, madre, cristiana” torna ad essere solo un’urlatrice senza argomenti. Volete disarmare fascisti e bigotti? Lasciate i discorsi sull’amore e tutto il resto a Benigni, e iniziamo a parlare di bambini coltivati.
Sì, certo, io sono un cinico insensibile che ha bevuto troppo whiskey e abusato del peyote, e in questo momento vi immagino con lo sguardo sbigottito dei partecipanti al ballo “Incanto sotto il mare” dopo l’assolo su Johnny B. Goode. Però le utopie non sono mai servite per realizzarsi; esistono per mettere in prospettiva ciò che va ridicolmente dalla parte opposta, ottenendo un discreto compromesso. E allora forse non siete ancora pronti per questa iperbole, ma ai vostri figli piacerà.






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