Messa a fuoco

Ho scritto un pippone serioso ma non è colpa mia, è merito di Toscani

Avevo un pezzo incompleto e semiabbandonato sullo scarso livello delle interviste in un’epoca in cui nessuno ha più niente da dire, e quandanche ce l’avesse sarebbe costretto a dirlo a gente interessata soltanto a fare “la domanda intelligente” senza neppure ascoltare la risposta. Avevo un pezzo incompleto e semiabbandonato su quanto il sostegno alla ricerca medica dipenda ormai unicamente dalle malattie dei VIP che finiscono in prima pagina, e sarebbe ora che i personaggi famosi la smettessero di sostenere cause comode con gli hashtag e mostrassero la giusta dedizione, pigliandosi morbi rari e patologie semisconosciute. Poi ho letto l’intervista del Corriere a Oliviero Toscani.

Voglio che sia messo agli atti: sono cinico e insensibile. Le malattie e la morte non mi spaventano e non mi mettono a disagio se non conto terzi per la retorica che si trascinano appresso. Non scelgo se andare al cinema controllando “DoesTheDogDie”, faccio battute alle veglie funebri, sono del tutto indifferente ai film strappalacrime ambientati nei reparti oncologici e mi genera più commozione il racconto di un’impresa sportiva di tutte le stagioni di “This is us” (che peraltro ho trovato di una noia indescrivibile, forse è così che volevano farmi piangere). Della morte mi sono sempre interessate le reazioni dei vivi: le osservo, le studio, cerco di trovare qualcosa oltre la religione e il patetismo, e le mie aspettative in merito non sono quasi mai state soddisfatte. Quasi, appunto.

Avevo quei due pezzi incompleti che non sapevo come sviluppare, come sempre capita alle idee che paiono buone fino al terzo capoverso; idee che comunque tieni lì perché sai che sono talmente generiche che basta aspettare. Arriverà di certo la prossima intervista in modalità TikTok a uno degli otto intellettuali sopravvissuti a questo tempo cretino, oppure (molto più frequente) il prossimo filotto di articoli il cui titolo inizia con “Ecco cos’è” e prosegue con la condizione clinica X diagnosticata all’influencer Y, la quale – fermamente convinta che ciò che manca alla divulgazione medica e alla prevenzione sia il formato video verticale in primissimo piano – accende la telecamera del telefono e si produce in monologhi che riescono nella notevole impresa di bestemmiare contemporaneamente Mario Merola e Piero Angela.

Li tenevo lì per i periodi di magra, insomma, come fa Salvini con le foto delle buste della spesa o gli sbarchi a Lampedusa; poi le parole di Toscani mi hanno fatto capire che non c’erano affatto due pezzi distinti. Come nelle sue più celebri fotografie, due cose che ci ostiniamo a pensare diverse sono in realtà soltanto una: ci vuole soltanto la giusta prospettiva, la corretta inquadratura, la visione d’insieme, la messa a fuoco senza pregiudizio.

Apro il link dell’intervista e la prima cosa che noto, dal titolo, è il solito collage di virgolettati in cui i giornali cercano di concentrare tutto – tutto ciò che posiziona in alto su Google, mica quel che ha detto l’intervistato – nelle 10 parole visibili dall’anteprima del link sui social, giacché viviamo un’epoca in cui va specificato “da guardare fino in fondo” sui video da 20 secondi, per evitare che l’indaffaratissimo utente dell’internet, per paura che mezzo minuto di inattività gli incancrenisca il pollice, decida di passare ad altro perdendosi il finale di quell’interessantissimo esperimento con un bancale di Coca-Cola e una vasca piena di Mentos.

Peccato, però, che la ricostruzione titolistica “sono malato + nome malattia + riscoperta dei valori della vita + non ho rimpianti” vada bene per qualsiasi influencer affetta da unghia incarnita che la costringe alle scarpe chiuse d’estate, non di certo per l’uso che Toscani fa dell’intervista (gli intellettuali domano le domande, non le subiscono). E infatti basta superare il titolo per realizzare che quell’intervista – per merito di Toscani, non delle domande – è il coccodrillo che nessun giornalista saprà scrivere quando sarà il momento.

C’è, nel liquidare i dettagli morbosi per arrivare al punto, tutto ciò che Oliviero Toscani è sempre stato: un dito in culo a chiunque cercasse di farlo stare in uno stereotipo, fossero essi opinionisti televisivi, politici bigotti o giornaliste in cerca della storia strappalacrime. C’è l’uomo libero che vola molto più in alto della malattia, che Oliviero nomina una sola volta per poi aggiungere: “in pratica le proteine si depositano su certi punti vitali e bloccano il corpo. E si muore. Non c’è cura”. Punto. Nessun pippone sulla prevenzione, nessun “se l’avessi scoperto prima”, nessuna sceneggiatura lynchiana sulla lettura dell’esito degli esami, nessun appello a rivolgersi agli psicologi per superare il trauma; quando della terapia dice “è sperimentale, sto facendo da cavia” non aggiunge di averne sentito il dovere morale, di vederlo come un gesto altruista, di aver pensato ai bambini o altri bonus cuoricini che quella tizia famosa perché stava col cantante dei Maneskin non si sarebbe certo lasciata scappare.

C’è, in ogni risposta e in ogni aneddoto, un realismo sfacciato che forse in fondo è l’unica vera dimensione della fotografia, e per questo suona straniante in un mondo che si interessa più dei filtri che della sostanza. Racconta di uno studente che gli chiede quanto il lato artistico della sua fotografia sia stato influenzato dal suo impegno etico, e Toscani risponde nel modo più Olivierotoscanesco possibile: “Ma la fotografia è impegno etico!” (sottotitolo: che cazzo di domanda è? Con chi credi di parlare, con Cristiana Capotondi?). Racconta che da piccolo in colonia era il bambino numero 287, e che ancora oggi usa quel numero per le combinazioni delle valigie; sottinteso: tanto ho finito di viaggiare, posso pure darvi le mie password (Aaaaaah! La privacy, l’autenticazione a due fattori, i dati sensibili!!). Sull’ateismo dice “Non sono ateo, solo non partecipo a tutto questo”; sulla paura di morire risponde “Non ho paura, basta che non faccia male”, e io sinceramente non credo possa esistere risposta più visceralmente realista.

E poi c’è l’ironia. L’ironia di raccontare del sindaco di Sant’Anna di Stazzema che gli commissiona un servizio senza immagini disponibili “e riattaccò, ‘sto stronzo”. L’ironia nel raccontare di voler chiamare Cappato e farsi dare una mano a chiuderla in fretta, poi che non vuol condizionare la sua famiglia, poi “niente funerale, bruciatemi e via” e poi rovesciare tutto domandandosi se non sarebbe meglio la demenza con un corpo sano, ché sarebbe un problema degli altri e mica suo. L’ironia nel dire che l’Italia non è Sinner, è Fabrizio Corona. L’ironia di chi dice ad Anna Wintour di trovarsi uno psichiatra e regala a Fidel Castro una bicicletta “per tornare in montagna a fare la rivoluzione”. L’ironia, dopo un’intera intervista a schivare clichè, di accontentare la giornalista esprimendo tre desideri talmente utopistici che una concorrente di Miss America forse si vergognerebbe a pronunciarli.

Ironia che servirebbe a me per chiudere il pezzo, ma in questo momento non la riesco a trovare, non so se per il ribrezzo nel vedere quei mentecatti di novax e affini recitare il loro squallido repertorio di goduria per le malattie altrui, o semplicemente perché cosa vuoi dire di più ironico di “[incontrare mia madre dall’altra parte] è una bella fantasia, ma io non ne ho abbastanza per coltivarla”? Cosa vuoi trovare di più ironico di uno che sta aspettando di morire e che alla domanda “Dove trova la bellezza nella sua tragedia?” inizia la risposta con “Mi viene da ridere”?

E allora forse è proprio così che devo chiudere, arrendendomi al fatto che una messa a fuoco dice molto di più di quintali di parole, che ho scritto fin troppo, che avevo due pezzi satirici mentre ora ne ho uno solo, e per giunta serio; tutto per colpa di Oliviero Toscani, ‘sto stronzo!


Una replica a “Messa a fuoco”

  1. Avatar Come lacrime al TG1 – Plautocrazia

    […] a Oliviero Toscani che dice senza mezzi termini che l’italianità è Fabrizio Corona, mica Jannik Sinner. Penso […]

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