Autonomia sanremizzata

I secessionismi sovranisti e il Festival come baluardo garibaldino

Da qualche giorno – lo so che sembra passato un secolo ma è successo letteralmente meno di 10 giorni fa – il governo dei patrioti ha portato in Parlamento la famigerata “Autonomia differenziata”, per la gioia di gente che andava nuda a caccia di marmotte lungo il Po quando sul Tevere già si accoltellava un Giulio Cesare. Vorrei allarmarmi, perché è davvero una proposta da mentecatti, ma manca così poco a Sanremo che le paventate divisioni non mi possono spaventare (poi a questo ci arriviamo) e inoltre sono troppo impegnato a ridere dell’insensato dibattito di una sinistra destinata al baratro su come possano i sedicenti nazionalisti votare una sorta di secessione. Ve lo spiego io in 4 parole: il nazionalismo non esiste.

Nazionalismo è soltanto il nome che diamo al disprezzo degli altri quando dagli “altri” ci divide un confine nazionale, ma non è nulla di diverso da analoghi sentimenti di disprezzo insensato mossi sotto la bandiera dell’Europa o dell’occidente (qualsiasi cosa esso significhi), e non è diverso dall’odio tra due curve di uno stadio, tra le opposte sponde del Grande Fiume, tra Emilia e Romagna, Pisa e Livorno, Bergamo e Brescia, tra contrade di Siena o tra voi e il vicino di pianerottolo che non spazza mai le scale e scopa rumorosamente in piena notte mentre voi guardate la carambola in TV. La nazione è soltanto un ordine di grandezza del disprezzo insensato, nulla più, e noi italiani dovremmo saperlo molto bene.

Dovremmo saperlo perché la seconda strofa del nostro inno, quella che nessun calciatore ha mai dovuto storpiare in diretta TV di fronte ai crudeli microfonisti dello stadio, inizia con i versi: “Noi fummo da secoli / calpesti, derisi / Perché non siam popolo / Perché siam divisi”. È una cosa che ho imparato da ragazzino (grazie a un prete, ma questa è un’altra storia) e che per il bene del paese e in memoria delle camicie rosse sono convinto che andrebbe inserita immediatamente nei programmi scolastici, insieme all’unica materia che può insegnare alle nuove generazioni a non incappare nei facili contrasti che hanno fatto la fortuna politica di gente altrimenti destinata alla betoniera: la storia del Festival di Sanremo.

Sì, la storia del Festival. Lo so che le scuole hanno altri problemi che sembrano più importanti di una kermesse – parola meravigliosa che non a caso usiamo solo per Sanremo – ma il Festival è forse l’ultimo baluardo di unità rimasto in questo nostro povero paese, martoriato dalle tifoserie incarognite e dagli amanti della marmotta allo spiedo. Non c’è nulla che si sia dimostrato così costante, onnipresente, tenace e visceralmente italiano in tutta la nostra storia repubblicana come il Festival di Sanremo: non c’è nulla di più rappresentativo di un popolo culturalmente diviso nel profondo, ma che sente l’impeto a raccogliersi sotto “un’unica bandiera, una speme” come auspicava Mameli. Nulla. Nemmeno i mondiali di calcio.

Ogni volta che si avvicina il Festival di Sanremo, esattamente come per i mondiali di calcio, l’intera nazione si mobilita mostrandosi – passatemi l’espressione da Baci Perugina – unita nelle divisioni. C’è chi si esalta e segue ogni speciale televisivo senza perdersi nulla e chi giura che non ne guarderà nemmeno un minuto, chi tifa per la squadra e chi spera vada male, chi fa polemica sulla copertura mediatica esagerata, chi ricorda a menadito le formazioni storiche e chi si vanta di non essersi mai interessato a quella buffonata, chi ne fa una questione politica, chi rimpiange “quello di una volta” e chi vuole rinnovamento, chi dà la colpa all’allenatore, chi alle riserve, chi alla dirigenza e chi a quello juventino ingrato di Bugo. La differenza è che i mondiali ci sono ogni 4 anni, e non sempre la nazionale partecipa, mentre l’Ariston ogni anno si popola, cascasse il mondo.

Dallo storico “Cari amici vicini e lontani” di Nunzio Filogamo – che può suonare ridicolo in tempi di dirette Instagram e sesso in chat, ma nel 1951 fu un enorme messaggio per una nazione che ancora si stava leccando le ferite della guerra – Sanremo c’è sempre stato, senza mai un’interruzione nonostante tutto. Il Festival ha attraversato la ricostruzione, gli anni di piombo, la guerra fredda, le crisi internazionali e le tragedie nazionali senza mai cedere il passo; non è mai crollato di fronte agli ostacoli esterni e a quelli interni: ha resistito all’edizione coi “figli di”, alle vallette in versione stoccafisso, al tema da seconda elementare dalla Ferragni, a Elton John che bidona all’ultimo, alle accuse di brogli, alle trite polemiche sui cachet, ai tentati suicidi, al suicidio riuscito di Tenco, alle flessioni di Albano, ai racconti sbronzi di Gino Paoli e perfino alle tinte per capelli della Vanoni.

I sovranisti dilettanti che ci ritroviamo in Parlamento ancora non l’hanno capito, ma Sanremo è l’Italia e l’Italia è Sanremo. Per questo è impossibile spiegare la febbre del Festival a chi non è italiano. Come si può spiegare all’estero l’eterno successo di un format che fuori da qui verrebbe chiuso dopo una sola edizione? Come spiego a uno straniero le occhiaie di mia madre che per una settimana invece di russare sul divano alle 22 resta sveglia fino alle 3 di notte per guardare le gag di Amadeus? Come si spiega a un altro popolo – che so, ai tedeschi – che in piena esplosione della prima ondata di COVID, nel paese più colpito d’Europa, si sono spese risorse ed energie per mandare in onda una trasmissione TV da un teatro vuoto coi palloncini sulle poltrone? Come lo spieghi, il paese di musichette mentre fuori c’è la morte, al resto del mondo che non ha mai visto (e mai capirebbe) Boris?

Insomma, pure io che sono completamente avulso da sentimenti territoriali, devo ammettere che l’identità italiana esiste, ma non c’entra nulla con le stronzate da patrioti della domenica che la Meloni e il suo circolo del bridge insistono a sbandierare. C’entra qualcosa di molto più profondo; qualcosa che nessuna autonomia differenziata o statuto speciale smuoverà mai di un millimetro, e Calderoli se ne faccia una ragione. L’identità italiana passa per l’autonomia sanremizzata: tante anime richiamate su un solo palcoscenico; un evento di cui nessuno di noi riesce a fare a meno (e se siete di quelli che si vantano di non averlo mai seguito, mi spiace farvi notare che non potete fare a meno del gusto di vantarvene); un’unica settimana l’anno durante la quale tutti noi, senza distinzione, entriamo in una bolla impenetrabile da qualsiasi accadimento, foss’anche una pandemia devastante, una guerra in Europa o il suicidio di uno che la sera prima stava proprio su quel palco.

L’autonomia sanremizzata è l’unica strada di aggregazione percorribile, l’ultimo inossidabile baluardo garibaldino che ci è rimasto, l’unica vera unità di un paese unificato con la forza più di un secolo e mezzo fa e che da allora cerca una bandiera. E se proprio insistete a credere che essere italiani riguardi le tradizioni e la nostra gloriosa storia dagli etruschi fino alla pesca dell’Esselunga, provate a pensare se esista qualcosa di più italico del tradurre il “fatta l’Italia, facciamo gli italiani” in una sceneggiata tradizionale con contorno di canzoni melense, guasconate provinciali ed infiniti dibattiti inconcludenti uguali dalle camere istituzionali alle sale da pranzo di tutto lo stivale, e che nonostante ciò resiste a tutto e tutti.

La politica non separi ciò che il Festival ha unito. Perché Sanremo è Sanremo.


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