Metodo Starsulkavskij

Dave Chappelle, i Monty Python e gli sfottò che dovreste leggere fino in fondo

La parte rassicurante del vivere in Italia – con buona pace delle paure insensate dei sovranisti nostrani – è che qualsiasi influenza culturale arrivi dall’estero non mette mai salde radici: per quanto gli invasati di questa o quella corrente sgomitino per emergere e i bigotti sbraitino di pericoli satanici più spesso di quanto Pio e Amedeo insultino il buonsenso, il risultato delle ondate culturali da noi sarà sempre la versione guascona di cose per cui altrove la gente va completamente ai matti e imbastisce guerre civili.

Certo, se nel mondo esistono i Rolling Stones a noi tocca accontentarci dei Pooh, il punk ha valicato le alpi quando altrove era già abbondantemente sepolto, e la nostra versione di Criminal Minds è Don Matteo, ma se in Italia chi brucia libri in piazza o raccoglie firme per far licenziare Mara Venier viene giustamente trattato da ininfluente idiota, forse lo dobbiamo proprio a Terence Hill e Roby Facchinetti. Tutto ciò per dire che non c’è prospettiva migliore della visione dall’Italia per inquadrare il nuovo special Netflix di Dave Chappelle e l’ennesimo ridondante carrozzone di lagne oscurantiste travestite da battaglie civili che ne è derivato.

Nei primi minuti di “The dreamer”, Chappelle racconta di quando ebbe l’opportunità di conoscere Jim Carrey durante le riprese di “Man on the moon”. Chiunque sia vagamente appassionato di cinema sa che in quell’occasione, per recitare al meglio il ruolo di Andy Kaufman, Jim Carrey applicò in maniera estrema il metodo Stanislavskij e restò nel personaggio 24 ore al giorno per l’intera durata delle riprese, e chiese a chiunque lo incontrasse di stare al gioco. Così al giovane Dave Chappelle, ansioso di conoscere uno dei suoi idoli, toccò fingere per tutto il pomeriggio che quello che riconosceva indiscutibilmente come Jim Carrey fosse in realtà Andy Kaufman. “Ed è così” – recita la punchline – “che mi fanno sentire oggi i trans”.

Salto indietro nel tempo: è il 1979 e nelle sale inglesi esce “Brian di Nazareth”, film capolavoro dei Monty Python che andrebbe mostrato nelle scuole per così tante ragioni che perfino Pitagora gli cederebbe il posto. In una celebre scena del film uno dei personaggi, ogni volta che si fa generico riferimento a “un uomo”, insiste a puntualizzare “o donna” facendo perdere il filo del discorso a tutti; quando gli altri chiedono perché lo faccia, lui confessa di voler essere donna, chiede di essere chiamato Loretta, dichiara che avere dei bambini “è un suo diritto di uomo” e agli altri che obiettano che è un uomo e non può partorire replica: “non opprimetemi”.

Il fatto che uno sketch che sfotte il dibattito infinito delle sinistre – e che è stato girato quando Jenner era ancora il cognome di un campione olimpico – oggi venga additato dalla comunità trans meriterebbe un capitolo a parte, ma non è su questo che mi voglio concentrare. Ci sono quasi 45 anni di distanza tra la scena dei Monty Python e la battuta di Chappelle, eppure sono esattamente sovrapponibili, e non lo dico soltanto perché oggi suscitano gli stessi bruciori di culo da parte delle stesse persone, ma perché basta non essere invasati urlatori per rendersi conto che sono identiche nella sagacia, nella chiave comica e… Rullo di tamburi… Nella totale inclusività.

Esatto. Inclusività. Quella parola che negli ultimi anni è stata presa in ostaggio da adolescenti lagnosi e poco scolarizzati, genitori pigri dei suddetti adolescenti, intrattenitori scarsi ma disposti a tutto, rivoltatori di hamburger laureati in scienze delle merendine e multinazionali a cui tutta questa gente offre quotidianamente manodopera non pagata come nemmeno i quartieri poveri di Hong Kong alla Nike negli anni ’80.

Vi siete irritati? Bene. Prima di mandarmi la Digos a casa, però, provate a leggere fino in fondo.

Leggere fino in fondo, appunto. Un esercizio a cui la gente non è più abituata, dato che fonda le proprie opinioni lapidarie su stories da 30 secondi, riassunti tagliati con l’accetta e piccoli spezzoni da cui dedurre il totale, che è come leggere soltanto il verso “Ed elli avea del cul fatto trombetta” e decidere che la Divina Commedia sia il capostipite del trash e Dante un antenato di Enzo Salvi.

Leggere fino in fondo come bisognerebbe fare coi libri, invece di metterli all’indice dopo aver letto il nome dell’autore; come bisognerebbe fare con tutte le battute, per partecipare al gioco collettivo invece di impuntarsi quando il gioco tocca le proprie sensibilità; come bisognerebbe fare per non dare alle parole significati che non hanno solo perché oltremanica e oltreoceano hanno una lingua da bifolchi che si presta a interpretazioni fantasiose; come bisognerebbe fare per avere una prospettiva non drogata della realtà e dei suoi (e dei nostri) difetti.

Basta leggere fino in fondo per sapere che non c’è nulla di “inclusivo” nella pretesa di censura per ciò che turba una particolare categoria persone, qualsiasi essa sia, dato che la censura è per definizione esclusiva.

Basta leggere fino in fondo per sapere che si è discriminati quando vengono negati dei diritti civili, e non quando si è oggetto delle battute dei comici.

Basta leggere fino in fondo per rendersi conto che l’essere vittima della stessa ironia caustica che tocca alle altre categorie è sintomo che la propria categoria non viene relegata in un angolo, ma aggregata a tutte le altre diversità di cui l’arte si occupa da sempre.

Basta leggere fino in fondo per riconoscere che per quanto Dave Chappelle abbia trovato assurdo e a tratti ridicolo fingere che Jim fosse Andy, per quanto quella finzione rovinasse in qualche modo l’incontro con un suo mito, l’ha chiamato Andy per tutto il pomeriggio.

Basta leggere fino in fondo per riconoscere che in “Brian di Nazareth”, dalla scena incriminata in avanti, per tutto il resto del film quel personaggio viene chiamato Loretta da tutti e senza bisogno di sottolineature.

Basta leggere fino in fondo per riconoscere che Chappelle e i Monty Python con le loro battute non alimentano affatto le discriminazioni, bensì l’accettazione, e che tra chi dice “Questa cosa la trovo ridicola ma fai come ti pare” e chi lancia invettive schizofreniche o firma petizioni per censurare la comicità, non sono i primi a fare la parte dei bigotti.

Ma si sa, per leggere fino in fondo servono tempo, impegno e onestà intellettuale. Tutte cose che è difficile trovare in movimenti che sono così dipendenti dall’immediatezza da dover coniare un neologismo ogni 2 settimane per fingere avanguardia e avere sempre dei “boomer” da additare; movimenti talmente pigri da pretendere che il resto mondo si renda parte attiva nell’idea che loro hanno di loro stessi; movimenti che confondono volutamente le libertà da rivendicare con le opinioni contrarie da vietare, i diritti civili con i capricci borghesi, la comicità con la denigrazione, il non essere discriminati con il voler essere intoccabili.

La libertà, l’empatia e l’inclusività di cui questi movimenti si riempiono la bocca non stanno e non staranno mai in una raccolta firme per oscurare l’arte, come non staranno mai in una caccia alle streghe, in un falò di libri in piazza o in una rappresentanza farlocca e forzata di tratti somatici, preferenze sessuali o altri feticismi di fronte a una telecamera. La libertà sta nell’occhio di chi accetta quelle degli altri quando non le condivide. L’empatia sta nell’occhio di chi capisce senza compatire. L’inclusività sta nell’occhio di chi non finge di essere d’accordo con te o di non trovare ridicolo il tuo travestimento, ma ti chiamerà Andy o Loretta se per te è importante.

La civiltà sta in fondo a un libro che vi sfotte. Finché vi fermerete alla copertina non la raggiungerete mai.


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