Conferenza stramba

Un racconto di grugniti autarchici, granai noiosi e risse bestiali

Finalmente il gran giorno era arrivato. La fattoria era in subbuglio ormai da settimane, in attesa che il Vecchio Maggiore – che malgrado rivendicasse quel titolo, era in realtà una majorette – riferisse riguardo la realizzazione di quello strano sogno che, solo un anno addietro, si era detto pronto a portare avanti per il bene della fattoria tutta, martoriata da anni di mala gestione dei suoi ungulati predecessori. Se la situazione del podere sembrava di per sé ben lungi dall’essere in linea con le promesse sperticate, il comportamento del Maggiore nelle settimane precedenti aveva destato non pochi malumori: i continui rinvii e le scuse con cui venivano giustificati infastidivano tanto la popolazione della tenuta, quanto il signor M, il quale cercava – riuscendo poco nel suo intento, va detto – di non darlo a vedere.

Il signor M era il fattore della tenuta ormai da tempo e, nonostante bramasse la pensione, aveva accettato di restare ancora per qualche anno. Avrebbe preferito che qualcun altro prendesse il suo posto, ma in quella confusionaria e strampalata parte di mondo era d’obbligo che il nuovo fattore fosse scelto dagli animali stessi, i quali – ahimè – bisticciarono a tal punto che il signor M accettò di rimandare il meritato riposo per placare gli animi.

I malumori, si è già detto, erano molti e per molte ragioni, e il recente comportamento del Maggiore aveva dato adito a speculazioni ad onor del vero plausibili. Correva voce – e nelle fattorie, si sa, le voci corrono più veloci dei cani da guardia – che il Maggiore non avesse affatto il Mal Rossino, ma stesse cercando di guadagnare tempo per paura della probabile graticola e della fine che la sua soffice cotenna avrebbe potuto fare, nonché della felicità che tutto ciò avrebbe regalato alle mucche, ai cavalli e all’opposizione tutta. Fatto sta che infine la scrofa – pardon, il maiale – smise di rimandare e finalmente il giorno della conferenza era giunto.

Il Maggiore entrò nel granaio, prese posto ed esordì con uno ieratico “Buongiorno a tutti, grazie di essere qui” al quale seguirono singoli ringraziamenti all’Ordine dei Pennuti, all’Associazione degli Artiodattili, e agli altri enti rurali incaricati dei resoconti. L’accoglienza fu abbastanza tiepida, dato che diversi enti disertarono la conferenza per protesta contro la legge museruola che il Maggiore e il suo seguito avevano da poco approvato, ma la platea era comunque discretamente larga e in qualche modo eterogenea. Dopo i convenevoli di rito il Maggiore grugnì: “Sarò abbastanza breve in questa introduzione: voglio lasciare spazio alle domande, ho poche cose da dire”.

L’introduzione, non molto breve in realtà, fu un claudicante e confusionario miscuglio di impegni futuri che avrebbero coinvolto le altre fattorie, scaricabarile lasciati tra le righe (ad esempio, indicò la legge museruola come “frutto dell’emendamento di un esponente equino al quale noi suini abbiamo dato parere favorevole”) e accenni riguardo l’avvento di mungitori automatici, tosatori intelligenti, raccoglitori semoventi per le uova e altri aggeggi sui quali il Maggiore e tutto il suo porcile portavano avanti più pregiudizi che analisi ponderate.

Finite le traballanti premesse, nel granaio le zampe cominciarono ad alzarsi per prenotare le domande, mentre dalle diverse rimesse già piovevano starnazzi di indignazione, belati di giubilo, muggiti arzigogolati e nitriti estemporanei. Era una prassi ormai consolidata: ogni volta che il Maggiore parlava in pubblico i suoi applaudivano e gli altri fischiavano a prescindere. Era proprio quell’atteggiamento ad aver costretto il signor M al pensionamento tardivo, ma era anche – a ben guardare – la medesima prassi che aveva permesso al Maggiore di conquistare quel ruolo tanto ambito. Un ruolo che significava sì fango caldo nel porcile, ma anche graticole accese su cui erano scivolati molti altri prima di allora.

Va detto, per amor di verità, che gli animali della fattoria avevano da sempre la graticola facile: erano ormai talmente frequenti gli arrostimenti anticipati che l’aria stessa del podere era invasa in maniera quasi irreparabile dalle esalazioni di cotenna bruciata, penne arse e zoccoli crepitanti. Non c’era verso di liberarsi di quel tanfo grasso e appestante, perché ogni scusa, anche la più piccola, diventava una buona ragione per un barbecue collettivo e per i suoi mefitici fumi. A volte un giovane vitello sognante o un vecchio e indefesso caprone cercavano di spiegare che quell’aria così viziata era di tutti e da tutti andava difesa, ma erano tentativi vani: a nessuno interessava più avere un’aria pulita; molti neppure sapevano com’era fatta l’aria pulita; ai più incarogniti l’aria pulita faceva perfino paura; tutto ciò che volevano era vedere fumo denso salire dagli altri recinti.

Ma torniamo nel granaio: le domande iniziarono ad arrivare e da quel momento in avanti la conferenza sembrò durare un tempo infinito. Un tempo infinito scandito dalla verbosità con cui le domande venivano presentate – pareva che tutti, dalle oche alle pecore, dagli asini alle mucche, perfino i gatti, fossero più interessati a mostrarsi eloquenti che a centrare davvero il punto della domanda – nonché dall’ancor più pesante ridondanza delle risposte date dal Maggiore. Inutile dire che, come sempre accade nei granai, le risposte furono tutt’altro che chiare: gli animali da comando, e in particolare i suini, sanno bene che la retorica e il divagamento sono i metodi più efficaci per far sì che di tutto si parli tranne del fango in cui il potere ama rotolarsi.

Così, alle domande sul razionamento del mangime, il Maggiore rispose parlando di chi aveva saccheggiato il silos prima di loro; alle domande sulle scelte e i possibili accordi con le altre fattorie in previsione dell’imminente fiera regionale, rispose con finte precisazioni, giri di parole fini a sé stessi e rimandi ad opinabili cinghiali polacchi; i vagheggiamenti aumentarono poi a dismisura quando gli chiesero conto di quella fumosa manovra che sembrava a tutti gli effetti un mezzo colpo di stato per legare le mani al signor M e permettere al consiglio suino – mai gioco di parole fu più azzeccato – di fare i propri porci comodi. Andò avanti così per tre ore che parvero trenta, senza nulla di inaspettato tanto nelle deboli domande quanto nelle prevedibili risposte; era ormai, anche questa, una prassi consolidata a tal punto che l’unico guizzo inaspettato lo diede la vescica dispettosa del Maggiore che lo costrinse ad una piccola pausa tra le risate degli astanti.

Nel frattempo, in tutto il podere le notizie e i resoconti rimbalzavano come palline in un flipper e gli animali capivano quel che volevano capire, applaudivano o criticavano senza cognizione di causa e in quell’aia (che qualche bravo venditore aveva spacciato come luogo di incontro quando era a tutti gli effetti un ring) si alzò l’ennesimo inutile trambusto di penne strappate e code morsicate: “Bravo Maggiore, siamo orgogliosi!”, “Ma orgogliosi di cosa, che stiamo con l’acqua alla gola?”, “È colpa delle nutrie! Dobbiamo difendere i confini della fattoria!”, “Dei vostri che finiscono dal veterinario un giorno sì e uno no non avete nulla da dire?”, “E allora voi pennuti che avete comandato per anni?”, “Ma vogliamo parlare del vostro asino strafatto che si è messo a scalciare a capodanno?”, “E quella che dice alle giumente che la loro unica ragione di vita è la monta?”, “È la fiera regionale che ci impone le sue regole il vero problema”, “Vogliamo l’indipendenza dell’ovile!”, “Fate i favori ai soliti che si sbafano tutto il mangime”, “L’ideologia rurale è morta!”, “Vi arrostiremo come vi abbiamo arrostito 80 anni fa”, “animalisti!”, “mezzadristi!”, “Vaffanculo!”, “No, vaffanculo tu!”.

Dal suo cascinale illuminato, intanto, il signor M osservava e chissà cosa pensava. Si diceva in giro che se avesse potuto parlare liberamente avrebbe detto peste e corna del Maggiore e della pletora di animali infangati che si portava dietro, ma il signor M era uomo d’altra epoca, che mai avrebbe osato parole o toni che invece erano il mangime quotidiano del Maggiore e dei suoi scagnozzi, campioni indiscussi di sceneggiate animalesche e grugniti indemoniati. Si limitò a guardare con rammarico tutte quelle bestie che si scannavano e sembravano non cogliere mai nessuno dei suoi rimproveri; pareva che in quella fattoria, teatro un tempo dei migliori allevamenti del mondo ma percorsa da irrisolte questioni di mezzadrie antiche e dominazioni terriere, gli animali avessero perso la capacità di ascoltare. Le parole del signor M, che mai si scomponeva e mai alzava la voce, si perdevano nel marasma di quei versi urlati che – poiché nel granaio la forma è sostanza – erano tutto ciò che personaggi come il Maggiore avevano da offrire. Perché una scrofa, anche se pretende di essere chiamata “signor maiale”, resta una scrofa: la sua dimensione è il fango.

Il fattore diede un ultimo sguardo a quel suo martoriato popolo animale, archiviò nella sua mente l’ennesima occasione di dialogo sprecata e andò verso la camera. La mattina dopo sapeva che la fattoria sarebbe stata ancora lì, con i suoi lividi, le sue penne sparse da ripulire, le vacche da mungere e il becchime da distribuire. Come se non fosse successo niente, un nuovo giorno avrebbe portato il solito chiocciare di dissenso, i belati canzonatori, i grugniti orgogliosi non si sa bene di cosa, i nitriti e tutto il resto.

Il signor M si mise a letto e spense la luce. Un attimo prima di addormentarsi una voce gli chiese: “Ma perché continui ad ascoltare i grugniti e i belati?”. Lui sorrise e rispose: “Là in mezzo ci sono i pigolii”.


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