La banalità del tale

Le guerre degli altri e la linea sottile tra Hannah Arendt e Vasco Rossi

Meglio rischiare, che diventare
Come quel tale, quel tale
Che scrive sul giornale

(Vasco Rossi)

La frequenza con cui ultimamente ripenso a strofe o ritornelli delle canzoni di Vasco è preoccupante. È preoccupante per lo snobista musicale che c’è in me e di cui cerco di liberarmi da tempo ormai immemore; è preoccupante perché la canzone che mi ronza in testa in questi giorni è più vecchia di me e sembra scritta ieri, oggi, forse domani; è preoccupante, soprattutto, perché dimostra quanto il prendere con leggerezza e banalità le cose complesse e pesanti sia una caratteristica immutata nel tempo, che si tratti di musica leggera canticchiata al karaoke o di conflitti di portata mondiale dei quali discettiamo sui social tra una foto di caldarroste in spiaggia e un video di Lenny Kravitz senza mutande.

Non amo parlare di guerra, tantomeno di quelle in corso, ma non per un qualche particolare pudore o sussulto emotivo di fronte a morti, bombardamenti o stragi che stiano nella sezione “breaking news” dei siti di informazione invece che su libri di storia. Non amo parlare di guerre perché, per quanto affascinanti da osservare a debita distanza di spazio e di tempo, ho sempre trovato la guerra un enorme atto infantile; non amo parlare di quelle in corso perché, senza la debita distanza temporale di cui sopra, qualsiasi cosa si dica è per definizione una stronzata – ché la storia si valuterà sempre e solo a posteriori, e farlo a caldo è semplice intrattenimento e nulla più.

Nel suo monologo da Fazio di domenica scorsa, Michele Serra ha parlato della guerra come palcoscenico del diavolo, ha detto che il linguaggio della guerra e la menzogna, e probabilmente ha ragione – diamine, è Michele Serra; se non ha ragione lui a chi cacchio ci possiamo affidare? – ma io credo che la menzogna da sola non basti. La menzogna da sola non può niente, non smuove niente, non causa niente; la menzogna è uno strumento, se proprio gli si vuole dare una connotazione vivente sarebbe un parassita, ma, come ogni parassita, può sopravvivere e prolificare soltanto se l’ambiente è favorevole.

Il mio film preferito in assoluto è “L’avvocato del diavolo” e, dopo averlo visto più volte di quante il compagno della Meloni si strofini il pacco fuori onda, posso dire con certezza che il cuore dell’intero film è in uno scambio di battute che passa quasi inosservato e del tutto messo in ombra pochi attimi dopo dal ben più famoso monologo su Dio. In preda alla rabbia e al desiderio di vendetta Keanu Reeves guarda Al Pacino e gli urla “Tu mi hai dato l’incarico! Tu mi hai incastrato!” e lui gli risponde “Io non faccio queste cose”. È tutto lì: l’uomo che si ostina a professarsi innocente, urlando che ha fatto ciò che ha fatto perché si è trovato in quella situazione orchestrata dal diavolo, e il diavolo che gli ricorda che è tutto libero arbitrio, che non basta dire di essersi comportati come si sarebbe comportato chiunque in quella situazione, che anche la banalità del male è una scelta.

Ci ripensavo, a quello scambio di battute, in questi giorni in cui mi sono ritrovato a leggere e ascoltare inevitabili discussioni su ciò che sta capitando a Gaza, tra gli schieramenti dichiarati e quelli mascherati, tra chi esulta o grida vendetta non prima di aver messo questa o quella bandierina su una bomba che ha distrutto un ospedale, una discoteca, un bunker, una moschea o qualsiasi costruzione che trasforma un’esplosione in crimine contro l’umanità o atto dovuto a seconda della fascia che si è deciso di infilare al braccio. Ero qui a cercare di trovare una lettura in mezzo alla baraonda di immagini truculente, video morbosi, bisticci con toni militari fatti dal divano di casa, e tutto mi aspettavo tranne che arrivasse Vasco a darmi la chiave.

Quel tale – dice Vasco – quel tale che scrive… Scrive. Punto. Non è più il 1980, il mondo sta tutto in tasca e non serve più essere Nantas Salvalaggio e scrivere per Rizzoli. Oggi “quel tale” siamo noi, tutti noi, che ci prendiamo la briga di analizzare conflitti internazionali senza neppure conoscere la geografia mentre un quarto d’ora prima usavamo la stessa sicumera per commentare le nomination del Grande Fratello, noi che – come Salvalaggio 43 anni fa – cerchiamo colpevoli per ciò che succede, nemici identificabili da incolpare delle tragedie che ci colpiscono o soltanto ci turbano, e abbiamo così bisogno di trovare un nemico al di fuori di noi che finiamo per trovarlo perfino in chi quelle tragedie semplicemente le vive o le racconta a modo suo, dalla sua prospettiva.

Oggi, in questo delirio di onnipotente orizzontalità, un tweet di fragolina64 vale quanto un articolo di Filippo Ceccarelli, un’analisi geopolitica di Lucio Caracciolo ha meno possibilità di essere presa a riferimento rispetto a un video Tik Tok di Fabrizio Corona, e la colpa non è della menzogna, non è dei social. La colpa è nostra, che con tutti “quei tali” da seguire e da imitare abbiamo perso il senso e la dimensione di quel che ci sta intorno, abbiamo perso la percezione di una realtà di cui sotto sotto non ci frega nulla. L’importante è dire qualcosa, schierarsi, prendere una bandierina prima che la prendano gli altri, usare spunti a caso per sparare nel mucchio, fare rumore, urlare fortissimo che è colpa degli altri, di Israele, di Hamas, degli americani, è colpa di Soros, è colpa dell’UE, colpa dei comunisti, colpa d’Alfredo, colpa del diavolo.

E anche se non siamo noi, se ci ritroviamo dall’altro lato, se “quel tale” è un altro, Michele Giorgio o pazzaInter88 poco conta, l’importante è sapere da che parte sta, ché se è dei nostri ci possiamo fidare ciecamente, ma se è dei loro sta sicuramente mentendo. Non è colpa nostra, noi ci informiamo come tutti gli altri, ci facciamo un’opinione con la nostra testa come tutti gli altri, accusiamo o perdoniamo in base a una bandiera come tutti gli altri, mica possiamo reggere tutta ‘sta incertezza, c’è una guerra e bisogna combattere, cosa sei McFly, un codardo? Non è colpa nostra, seguivamo quel tale, lo seguono in tanti, e sembra dire cose sensate perché sono le stesse cose che pensavamo prima di ascoltarlo. Non è colpa nostra, quando scriviamo qualcosa sui social c’è sempre quel tale che ci dà ragione, che la pensa esattamente come noi anche senza finire di leggere, quel tale che non ci corregge i congiuntivi, quel tale che ci mette un cuoricino per ricambiare il cuoricino che gli avevamo messo noi ieri. Non è colpa nostra, è quel tale che ci ha riempito di menzogne, è quel tale che ci ha dato l’incarico, è quel tale che ci ha incastrato. Non è colpa nostra, eseguivamo degli ordini.

Non so come finirà questa guerra, non so quanti e quali stati ci saranno alla fine, non so quanto altro sangue inutile sarà versato e per quanto ancora saremo ossessionati dalla pornografia delle immagini splatter; forse fino alla prossima di campionato, fino alla prossima figuraccia di Giancoso, fino al prossimo spot di un supermercato. Una cosa però la so e la voglio rivendicare: io di questa guerra non voglio far parte, e non sto parlando della striscia di Gaza, ma di una striscia molto più vicina, molto più palpabile, molto più a dimensione di smartphone, di pollici opponibili, di blitz da divano, di colpi sparati a caso.

Tra Netanyahu e Hamas, io scelgo Vasco. Meglio rischiare. Meglio rischiare di sentirsi dare dell’ignavo che indossare divise in fretta e furia. Meglio rischiare l’equidistanza che confermare una connivenza. Meglio rischiare il dubbioso purgatorio che le saccenti alternative. Meglio rischiare che diventare come quel tale.


Lascia un commento

ALTRI ARTICOLI RANDOM

  • Citofonare Berkeley

    Citofonare Berkeley

    Filosofie ubriache nei cioccolatini, alberi militanti in foreste vuote e una trappola

  • La dolenzia dell’armadillo

    L’inutilità dei gesti simbolici e l’accollo dei salsiccioni

  • Concitazione

    Concitazione

    Le scuole differenziali e l’internet che non sa parcheggiare

  • Se telefonando

    Se telefonando

    I poveri petrolieri generosi e quella volta che ho bloccato il Papa su WhatsApp