
Non volevo scrivere nulla, volevo lasciar passare la notizia della morte di Michela Murgia come quella della morte di qualsiasi altro personaggio amato o odiato. Non volevo scrivere nulla perché ho sempre visto nelle sue prese di posizione sui media l’emblema del declino delle battaglie sociali, mentre tutti ne vedevano l’apice. Non volevo scrivere nulla perché con la base di partenza di ciò che pensava sono quasi sempre stato d’accordo, e con ciò che poi finiva per fare e sostenere non lo sono stato quasi mai. Non volevo scrivere nulla perché scriverne significa finire in una delle due uniche categorie che questo tempo idiota riesce a partorire: “noi” e “loro”.
Non volevo, poi ho aperto Twitter.
Ho aperto Twitter e ho trovato ciò che era ovvio trovare: decine, centinaia, migliaia di messaggi di ammirazione per la scrittrice prematuramente scomparsa, decine di video, interviste, e citazioni appiccicate sulle foto della Murgia (un giorno dovremo affrontare l’enorme problema di chi una frase la deve piazzare su un’immagine e non semplicemente scriverla, ma quel giorno non è oggi).
Nella giungla dei tweet sulla sua morte, che hanno ovviamente monopolizzato il dibattito (Ahahahahaha! Scusate) sui social, sono comparsi anche i tweet di cordoglio di chi con la Murgia si è scontrato politicamente per anni e su molti, forse tutti, gli argomenti. Ne ho visti diversi, sentiti e non, di circostanza o meno, ma ancora resistevo nella mia intenzione di non scrivere nulla a riguardo, finché non ho letto i commenti che questi tweet hanno ricevuto da parte degli ammiratori della scrittrice.
Scorrevo quell’infinito fiorire di “ipocriti!”, “Michela vi disprezzava!”, “fascisti!”, “non siete degni di nominarla!” e altri profondissimi pensieri seguiti da punti esclamativi, li leggevo e ho ceduto alla tentazione: ho twittato una domanda retorica. La domanda faceva così: “Ma voi siete proprio sicuri sicuri che la donna meravigliosa, pacifista e contro l’odio che state raccontando sarebbe felice di vedervi insultare in branco i suoi antagonisti che esprimono cordoglio?”.
La risposta non ha tardato ad arrivare, e un giorno dovremo parlare anche dell’enorme problema di una scuola dell’obbligo che produce persone che rispondono alle domande retoriche, ma quel giorno non è oggi. La risposta, dicevo, è arrivata celermente da un generico utente Twitter che chiameremo Salsiccione74, e recitava così: “Non so se lei sarebbe felice, ma io ho una gran voglia di scagliarmi contro quegli ipocriti cialtroni che l’hanno insultata e offesa in vita e oggi si sperticano in condoglianze. Ergo lo faccio”.
Piccolo salto indietro nel tempo, è l’8 dicembre del 1980, siamo a Manhattan e un ragazzo di 25 anni spiega le proprie azioni con la seguente frase: “Ascoltavo quella musica e diventavo sempre più furioso verso di lui. Questa era un’altra cosa che mi mandava in bestia, volevo proprio urlargli in faccia chi diavolo si credesse di essere, dicendo quelle cose su Dio, sul paradiso e sui Beatles!”. Il ragazzo è Mark David Chapman, e ha appena ucciso John Lennon con 5 colpi di pistola.
Non so dirvi da quale meandro della mia mente sia rispuntata in un lampo quella frase, ma la sovrapponibilità è talmente precisa e il parallelo talmente limpido che sento di dovere delle scuse a Michela Murgia. Non per averla criticata o aver preso di mira le sue supercazzole, ci mancherebbe, ma per non aver capito che era caduta vittima di quella che io chiamo “maledizione di John Lennon”.
La maledizione di John Lennon, per farvela breve, è la maledizione di chi professa ideologie a una platea in cerca di leader da seguire; la maledizione di chi suggerisce dubbi a chi chiede risposte; la maledizione di chi avrebbe bisogno di compagni e si ritrova con dei discepoli scemi.
Lennon immaginava un mondo senza guerre e violenza, un mondo in cui tutti potessero vivere in pace, e Chapman era convinto di immaginare la stessa cosa, di essere in sintonia con John, quando invece aveva soltanto plasmato il messaggio pacifista del cantante attorno alle proprie convinzioni.
Quando scoprì che qualcuno macchiava la fittizia reputazione di Lennon che aveva in testa, si appostò in attesa che quel qualcuno si palesasse e diede sfogo alla sua voglia di scagliarsi contro il colpevole, che nel suo caso era John Lennon stesso – e non Yoko Ono, come tutto il mondo sperava.
Certo, Chapman era un pazzo, un ragazzo con enormi problemi, eppure nel commento di Salsiccione74 ci sono tutte le contraddizioni che 43 anni fa hanno armato la sua mano: ci sono l’uso di violenza verbale in barba agli appelli pacifisti della Murgia, la scelta di appostarsi sotto i profili social dei colpevoli in attesa del tweet su cui sparare, la totale mancanza di pentimento e – soprattutto – quel percepirsi immotivatamente alla pari con il proprio idolo che ai tempi di Chapman si chiamava “disturbo narcisistico della personalità” e ai tempi di Salsiccione74, complici i social, non è più nemmeno considerato un disturbo mentale.
Non so se Michela Murgia fosse John Lennon, se “Accabadora” fosse la sua “Imagine”, non so se il mondo che sognava sia la strada giusta, se sia percorribile – anzi, sono abbastanza convinto del contrario – ma so per certo che ad applaudirla sui social, a piangerla oggi e a giurare che il suo insegnamento non sarà mai dimenticato, come per John, ci sono migliaia di aspiranti Chapman che di quel messaggio hanno capito meno di quanto abbiano capito i suoi detrattori più feroci.
Ecco, se c’è qualcosa in questa baraonda di dichiarazioni che penso valga davvero la pena dire e ricordare, per rendere giustizia a una pensatrice libera e idealista, è che anche in questi tempi di orizzontalità percepita, forse ancor più di prima, il compito dei pensatori è restare verticali e guardare dove gli altri non possono, o non riescono.
Un giorno dovremo affrontare l’enorme problema di una società drogata di social che a forza di chiedere “cosa ne pensi?” invece di “sei sicuro di aver capito?” alimenta il Fattore Chapman e crea dei proto-psicopatici pronti a esplodere. Ma quel giorno non è oggi. Oggi c’è un funerale.






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