Concitazione

Le scuole differenziali e l’internet che non sa parcheggiare

Ho una proposta: smettiamola di chiamarlo “politicamente corretto”. Lasciamo agli americani e alla loro bassissima scolarizzazione l’etichetta del “politically correct” e proviamo a ricordare le potenzialità di una lingua romanza come la nostra. Smettiamola di chiamare “politicamente corretto” qualcosa che per come viene usata non è corretta né tantomeno politica. Chiamiamola per quello che è: “Incomprensione del testo”.

Il problema – che non è cambiato di una virgola da quando decenni fa in TV c’era il maestro Manzi a ieri quando Concita De Gregorio è stata lo scandale du jour – lo aveva inquadrato benissimo Sergio Sgrilli in epoca pre-social in uno dei suoi monologhi. Il pezzo faceva più o meno così: “Per spiegare quanto noi uomini siamo ridicoli raccontavo questa barzelletta: ‘Sapete perché le donne non sanno parcheggiare? Perché gli han sempre detto [fa il segno di una misura piccola con le dita] che così son 20 centimetri’, e c’era sempre qualche donna che urlava ‘non è vero che non sappiamo parcheggiare!’, ma che cazzo c’entra?”.

Così, quando un tizio famoso sui social (perdonate l’ossimoro) e la sua cricca distruggono una statua dell’ottocento per fare un video, succede che Concita faccia un appello su Repubblica a giornalisti, editorialisti, intellettuali, genitori e al mondo tutto a fare qualcosa per mettere un freno a questi mentecatti che tutto fanno pur di avere follower e a cui tutto vien concesso se ne hanno molti. Succede che questo appello inizi con uno sfogo in cui li chiama “decerebrati”, dice che una volta “sarebbero stati alle differenziali” e una serie di altre parole scritte con un registro che dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) far capire al lettore il tono e l’intenzione del resto dell’articolo.

Infine, come per la barzelletta di Sgrilli, si alza il coro indignato di chi non ha mai imparato l’analisi del testo a urlare “come ti permetti??”. Come ti permetti di paragonarli a chi ha una malattia, come ti permetti di usare parole che dette in altro modo e in altro contesto possono essere offensive per chi è malato, come ti permetti di usare parole non rassicuranti, come ti permetti di dire che non sappiamo parcheggiare?

E hai voglia a spiegare alla gente con la bava alla bocca che “decerebrati” non ha lo stesso significato di “cerebrolesi” (parola di cui poi Concita si è scusata, senza averla pronunciata, perché l’internet l’aveva percepita); hai voglia a spiegare a chi dice “bastava chiamarli scemi, o cretini, senza tirare in ballo le malattie” che “scemo” e “cretino” si riferiscono anch’esse a chi ha un ritardo, ma semplicemente ci siamo abituati a usarle in altri contesti; hai voglia a spiegare che se ti do del ritardato non sto dicendo che hai una malattia, ma che nonostante tu non ce l’abbia ti comporti come chi ha una ragione clinica per comportarsi da scemo, ergo, non hai scuse; hai voglia a spiegare la luna a chi si ostina a guardare il dito.

Un errore, però, Concita l’ha fatto: ha chiesto scusa.

“Che cazzo dici? Se così tanti sono indignati è ovvio che ha sbagliato, DEVE chiedere scusa, se continuiamo a lasciar correre non diventeremo mai un paese civile, i giornalisti hanno delle responsabilità, le parole sono importanti, e poi l’empatia, la sensibilità, i traumi, il linguaggio inclusivo, aaaah! Io so fare anche i parcheggi a esse!”. Ok, bravi, ora a cuccia.

Lo so che l’internet e i giornali, che titolano “bufera social” più spesso di quanto Salvini mangi salsicce, hanno convinto tutti che chiunque osi dire qualcosa che non ci aggrada abbia l’obbligo di cospargersi il capo di cenere, nonché – ancor peggio – che l’interpretazione del lettore sia più importante dell’intenzione dello scrittore, ma il punto è che non è così: non esiste il diritto a non essere turbati e soprattutto, per quanti anatemi vengano scagliati e quanti interventi dell’inquisizione vengano invocati, il percepito conta quanto il due di briscola. Non fate quella faccia, è così. Se il percepito contasse qualcosa, a scuola invece di far studiare la parafrasi della Divina Commedia direbbero agli studenti di interpretarla come vogliono e nei compiti in classe invece del dizionario farebbero usare i pastelli a cera.

La cosa comica, ad osservarla dalla giusta distanza, è la coincidenza di voci tra le urla sguaiate che invocano il delitto di lesa sensibilità e l’intervento dell’autorità morale (che sia l’editore, l’ordine dei giornalisti o il Papa) e quelle altrettanto sguaiate che, trovandosi dall’altro lato dell’intervento di un’autorità morale, urlano al fascismo e rivendicano il diritto di fare ciò che vogliono di ciò che è loro, si tratti esso di un tweet indagato dall’algoritmo, un utero minacciato da Pillon o i soldi per una cena al Twiga. D’altra parte si sa, ciò che è mio è mio, ciò che è tuo, se mi turba, diventa mio e decido io. Gott mit uns!

Mentre scrivo queste righe sono passate meno di 48 ore dal fattaccio, Concita ha espresso delle scuse di circostanza per dei termini che non ha usato e “la rete” si è nuovamente indispettita perché nel farlo ha osato far notare che le frasi incriminate avevano un contesto ben preciso, e che è in quel contesto che le parole andrebbero valutate e pesate. Nel frattempo i cerebrolesi restano cerebrolesi, gli idioti che hanno distrutto una statua restano idioti, e l’appello di Concita ad usare i social per spiegare come essere una società migliore nella pratica – che in terza elementare sarebbe la risposta a “Leggi attentamente l’articolo e spiegane il significato” – è stato travolto dall’affanno di quelli a cui basta percepirsi migliori nella teoria.

Niente di cui la De Gregorio si debba seriamente preoccupare, comunque: tra un paio di giorni ci sarà un nuovo scandalo di cui affrettarsi a dirsi indignati senza preoccuparsi di comprenderlo o contestualizzarlo. Poco importa se sarà un articolo di Feltri, un colpo di stato militare in Africa, lo scontrino di un bar a Venezia o una nuova mirabolante avventura di Alain Elkann in mezzo alla plebe, l’internet dei giusti, con la medesima concitazione, si affretterà ad alzarsi in piedi, calpestare quell’inutile sussidiario di lettura e comprensione e urlare con forza: “Tagliatele la testa! Dio è con noi! Non è vero che non sappiamo parcheggiare!!”.


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