
Vi racconto una storia: qualche decennio fa, prima dei social e della banda larga, prima dello streaming e dell’on-demand, prima che gli americani attuassero quell’esportazione di idiozie che li illude di essere la più grande nazione del mondo invece che il più vasto caso infettivo di dissociazione di massa, prima di tutto ciò, la gente non aveva il bisogno di illudersi che le classi sociali non esistessero.
Traduco per quelli convinti che il big bang sia stato l’altroieri: nessuno sentiva l’irrefrenabile desiderio di spendere tutti i propri risparmi per passare una notte nella villa di Gwyneth Paltrow messa in saldo su Airbnb, Marlon Brando non era obbligato a fingere di vivere la stessa vita di un facchino della Marcegaglia per far andare la gente al cinema, e l’unica reazione alle lagne di un principe che va da Oprah a fare il mendicante in cerca di compassione sarebbe stata una sonora pernacchia riecheggiante nei secoli dei secoli.
Erano anni in cui, pensate che assurdità, le famiglie ricche si permettevano cose da ricchi e quelle povere o modeste, semplicemente, no. Anni in cui i bambini che di cognome non facevano Agnelli si sentivano dire – chi più chi meno spesso – una frase che oggi varrebbe 10 sedute dallo psicanalista: “ti fai andar bene questo”. Non importa se si trattasse dell’Action Man sottomarca venduto al discount, della simil-girella gusto pan di spagna e catrame, dei pastelli Fiotto o dello zaino delle Lucertole Ninja: quello ci si poteva permettere e quello ti doveva bastare.
Tra tutti i vari surrogati nei miei ricordi di bambino non ricco degli anni ’90, ce n’è uno a cui ho pensato appena ho letto del nuovo live action di Biancaneve: le videocassette sottomarca dei cartoni animati Disney. Non sto parlando delle cassette piratate o di quelle registrate dalla TV in scarsissima qualità, ma di quei cartoni animati di bassa lega che scimmiottavano il lungometraggio Disney del momento e avevano titoli come “La giovane sirena”, “Leo il leone” o “Lo zoppo di Montmartre” – l’ultimo me lo sono inventato, ma avrebbe tranquillamente potuto esserci.
Come ogni surrogato che si rispetti, anche le videocassette simil-Disney del discount somigliavano all’originale abbastanza da sembrare sensate ai genitori che le rifilavano ai figli, ma non abbastanza da rischiare denunce per plagio. Tutti sapevamo che tra “Leo il leone” e “Il re leone” c’era la stessa differenza che passava tra la Girella e il Giro Giro Olè al gusto segatura, nessuno si sarebbe mai sognato di paragonare il surrogato all’originale e invitare gli amichetti a casa promettendo “La sirenetta” per poi mettere nel videoregistratore “La giovane sirena” poteva macchiare irrimediabilmente la tua reputazione già dalla terza elementare con soprannomi indelebili.
Senza Scar, o Timon e Pumbaa, senza la complementarietà tra Simba e Nala, non era Il Re Leone. “Leo il leone” era un’altra storia, forse bella o forse no, non importa, era un’altra. Punto. Non c’era discussione. Lo sapevano gli adulti, lo sapevano i bambini, lo sapevano tutti. Oggi però viviamo un’epoca talmente dissociata da logica e realtà che in confronto l’Inghilterra vittoriana pare la culla dell’illuminismo, e di questo dobbiamo ringraziare la più grande scemocrazia del mondo, che a forza di soddisfare le fregole degli esaltati ha trasformato la più grande e fantasiosa casa di produzione del pianeta nella peggior venditrice di fuffa da discount.
Così, mentre si convincono i gonzi dell’inesistenza delle classi sociali per avere una buona ragione per licenziare sceneggiatori capaci e costosi, si cambia la pigmentazione della protagonista e il nome di Biancaneve perde il suo significato, il principe sparisce in nome dell’empowerment e i nani vengono licenziati – tutti tranne uno, perché 7 nani sono offensivi, ma uno fa rappresentanza – per far spazio a indefinite “creature fatate” che più che l’aspetto di personaggi di una favola hanno quello di una cooperativa di fenomeni da baraccone scartati dal luna park di Casal Borsetti.
Ma se il personaggio principale non ha più la pelle bianca come la neve, se il principe non serve perché la protagonista è abbastanza forte da cavarsela senza il patriarcato, se i coprotagonisti sono una squadra di calcetto mista della legione straniera, se non si parla più del vero amore che supera ogni ostacolo e sconfigge la più nera delle magie, quella storia non è più “Biancaneve e i 7 nani”. È un’altra storia. Una storia che forse sarà bella o forse no, forse avrà bellissimi insegnamenti da dare, come “Leo il leone” e tutte le altre, ma è e rimane il tentativo di rosicchiare popolarità di riflesso; è e rimane il lavoro di sceneggiatori pigri, sottopagati o inesistenti; è e rimane un prodotto il cui logico destino sono i cestoni delle offerte e i “te lo fai andare bene” che questo tempo è così impreparato a gestire da essere disposto a soffocarsi agonizzando col pan di spagna al polistirolo pur di dire che è uguale uguale alla Girella – anzi meglio – e chi non concorda è fascista. Hasta la sottomarca siempre!
Ai tempi delle classi sociali bene in vista, delle vacanze in riviera e dei discount senza testimonial televisivi, gli originali Disney avevano sul dorso un bollino di autenticità, e tutti i film erano preceduti dall’invito a diffidare delle imitazioni per preservare l’eccellenza dei prodotti originali. Traduzione: i nostri prodotti sono i migliori perché abbiamo i migliori disegnatori, sceneggiatori e registi sulla piazza; costano di più perché l’eccellenza si paga, e se scegliete di pagare meno avrete soltanto copie sbiadite che con l’originale non hanno nulla a che fare.
Oggi che fingiamo che la differenza tra noi e Johnny Depp sia pochissima, facciamo il weekend a Bali andata e ritorno tutto compreso pagando in monete, Cracco ci giura che il Giro Giro Olè è proprio come la Girella e chi rivendica la propria eccellenza viene tacciato di bullismo da parte dei mediocri, si può avere tutto il catalogo di decenni di eccellenza ben pagata a portata di smartphone per il prezzo di una birra alla spina, ma gli stessi film Disney iniziano con un avviso su contenuti non in linea con le sensibilità di oggi.
Traduzione: vi preghiamo, non è colpa nostra se il Brucaliffo fuma o se i gatti siamesi sono stati disegnati con gli occhi a mandorla, non ci fate causa per istigazione al tabagismo e razzismo felino, ché coi prezzi miseri a cui siamo costretti a venderci, altro che avvocati, non riusciamo nemmeno a pagare uno sceneggiatore decente e ci tocca fare i live action a immagine dei bambini che non avete voglia di educare. Se volete un pinocchio di metallo per far sentire inclusi i vostri quattrenni con le protesi va bene, se volete sostituire la pancia della balena con un monolocale in Trentino va bene, vi disegniamo pure Lucignolo con le fattezze del vostro vicino di casa antipatico, basta che ci date ‘sti 7 euro e 99. Tanto di eccellenze da difendere non ne abbiamo più.
Fidatevi delle imitazioni. Per favore, teniamo famiglia.






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