
Nella scena forse più famosa di “Lenny”, un immenso Dustin Hoffman nei panni di Lenny Bruce recita: “Se il presidente Kennedy andasse in televisione e cominciasse a dire ‘negro negro negro negro negro negro negro’ un milione di volte, fino a che negro non significa niente, mai più, allora non vedreste più un bambino di colore di 6 anni piangere a scuola perché qualcuno l’ha chiamato negro”.
Ci pensavo ieri notte – “ieri” rispetto a quando l’ho scritto, rispetto a quando lo leggerete voi potrebbe essere “l’anno scorso”, però il pezzo mi è venuto bene che faccio, lo butto? Fingete che sia appena successo – mentre seguivo gli strascichi dell’ennesima questione di rilevanza nazionale riguardo a un’immagine di Mussolini (il dittatore, non la soubrette) esposta a favore di telecamera e di pettegolezzo.
Il luogo del misfatto questa volta è la sede del MISE, nella quale sono stati esposti – in occasione dei 90 anni del palazzo – i ritratti di tutti i ministri che si sono succeduti in quelle stanze. A un certo punto qualcuno si accorge che tra i ritratti c’è anche quello di Mussolini (sempre il dittatore) e fa partire il telefono senza fili. All’altro capo della comunicazione c’è Bersani (il politico, non il cantante), altro protagonista della medesima mostra, il quale riporta il fattaccio in un tweet e chiede – con l’ironia che lo contraddistingue – di essere esonerato e che il suo ritratto sia rimosso. Avesse aggiunto “domine non sum dignus” sarebbe stato un capolavoro.
Il popolo insorge, si costerna, si indigna, si impegna e alla fine il quadretto (del dittatore, non di Bersani) viene rimosso, mentre a fare da contraltare arrivano Ignazio “TripAdvisor” La Russa a farci l’elenco di tutti i palazzi in cui ci sono foto del duce, il circolo degli architetti anonimi a chiosare “il palazzo è stato costruito durante il fascismo, che si fa, lo buttiamo giù?”, e dulcis in fundo i giornalisti pagati a gelato e patatine che ripescano foto di Bersani (non il cantante) con quadretti di Lenin in bella vista e tirano in ballo i gulag (Sì. I gulag. Lenin. Ma ne parliamo un’altra volta).
Torniamo per un attimo al film: il senso di quel monologo era che è la repressione di una parola a darle forza, e che siamo noi a caricarla di violenza ogni volta che ci scandalizziamo nel sentirla. Un concetto che a me personalmente è chiaro da quando alle elementari – in un’epoca in cui non si chiamava un team di psicologi per risolvere le beghe tra i bambini – mio padre mi disse che più mi offendevo e reagivo male ai miei compagni che mi davano del nano, più quella parola mi avrebbe fatto male, e più loro ci avrebbero provato gusto: “Se li ignori smettono, e se non smettono non importa, perché tanto li ignori”.
Lenny Bruce si riferiva alle parole e, se è indiscutibile che il potere delle parole nell’era di Instagram e TikTok sia passato alle immagini, il senso e la veridicità di quel monologo rimangono gli stessi: è l’indignazione popolare a dare forza alle foto di Mussolini, è l’indignazione popolare a caricarle di pericolosità. Non c’entrano i neofascisti, non c’entrano né CasaPound né Forza Nuova né qualsiasi altra curva da stadio che si prende inspiegabilmente sul serio; siamo noi a dare al fantasma del fascismo l’opportunità e il gusto di prenderci per il culo mentre diventiamo paonazzi e lanciamo sedie e banchi contro i muri della 3°B – forse quello dei banchi sono solo io, ma non sottilizziamo.
Certo, Mussolini ha rappresentato qualcosa di terribile e il fascismo è stato un cancro per l’Italia e non solo, ma la damnatio memoriae è un inutile esercizio di legittimazione che non fa altro che riportare nella discussione ciò che si vuole condannare; è quello stesso atteggiamento che vi fa decidere di cambiare locale quando vedete che a due tavoli da voi c’è quel vostro ex che vi ha fatto le corna con vostra sorella 30 anni fa, o quel coscritto che vi sta sul cazzo dalla seconda elementare perché aveva lo zaino dei Power Rangers più bello del vostro: non otterrete nulla se non ritrovarvi a casa con i nervi a fior di pelle e senza nemmeno il gin tonic come sedativo.
Che vi piaccia o meno, l’unico modo per cacciare uno spauracchio non è perpetrare la condanna in eterno, ma insistere sull’indifferenza. Proprio come diceva mio padre quando mi chiamavano “nano”. Proprio come diceva Lenny Bruce per la parola “negro”.
Vi lascio qualche istante per citare a caso Primo Levi e la Harendt. Fatto? Ok, andiamo avanti.
Non è grazie alla memoria che non ci si ricasca. La memoria serve per breve tempo a chi quella cosa l’ha toccata con mano, come un bambino che si scotta toccando una pentola e per una settimana avrà una bolla sul dito che glielo ricorderà. Sgonfiata la bolla e passato il dolore, però, la memoria non serve più: serve la conoscenza; così – a 40 anni – quel bambino saprà che per togliere la pentola dal fuoco servono le presine, esattamente come lo saprà un altro quarantenne che da bambino non si è mai scottato perché qualcuno l’ha avvisato per tempo, e nessuno dei due soffrirà di cannavacciuolofobia, chiederà le dimissioni di Alessandro Borghese o urlerà allo scandalo per le pentole in vetrina da Kasanova senza la scritta “usate le presine” a caratteri cubitali o evidenziata da un cappottino rosso.
C’è un’urgenza in questo paese, ma non è l’urgenza di resistere al ritorno del fascismo: è l’urgenza di fottersene. Fottersene di qualche scappato di casa convinto che il fascismo fosse grandioso. Fottersene di chi addobba casa con busti del duce. Fottersene di qualche hooligan mai uscito dalla pubertà che ridacchia coi suoi amichetti sulle foto di Anna Frank. Fottersene, soprattutto, ogni volta che un’immagine o un richiamo a Mussolini (il dittatore, non la showgirl) spunta da qualche parte. Non per dimenticare, ma per conoscere e osservare il passato con la prospettiva e l’obiettività di Rocco Schiavone – o Eraclito, se proprio ci tenete alla cultura classica – e passare davanti a una foto del duce sapendo che il fascismo è sbagliato a prescindere da quella testa pelata, restare calmi, fare un bel respiro e dire Panta Rei, tutto scorre, sticazzi.






Lascia un commento