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La dittatura dei pensierini e i miei quaderni delle superiori     

Quando frequentavo le superiori avevo un quaderno. Uno solo. No, non sto per raccontarvi la struggente storia dell’adolescente povero che non si poteva permettere più quaderni e passava i pomeriggi a vendere fiammiferi porta a porta immerso nella neve fino al ginocchio per poi dividere un tozzo di pane per cena con la famiglia. Avevo un solo quaderno per scelta.

Lo definivo “il quaderno di tutto”, e ci scrivevo davvero tutto: scorrendo le pagine si passava da appunti di diritto a problemi di matematica, a traduzioni in inglese e così via. Mentre i miei compagni di classe avevano un quaderno per ogni materia, alcuni addirittura di formati diversi, io scrivevo tutto lì, senza un ordine preciso se non quello cronologico delle lezioni. Sarà che la fortuna di avere un’ottima memoria mi permetteva di non aver bisogno di quintali di appunti, sarà per un inconscio rispetto per quei poveri quaderni sporcati dalla mia pessima calligrafia, ma in quel disordine in cui le materie quasi si mescolavano tra loro mi ci ritrovavo alla perfezione.

Il disordine è una mia caratteristica innata, e negli anni mi è costato ore e ore di ramanzine dai genitori, critiche più o meno costruttive dagli insegnanti e una costante incredulità da chiunque mi vedesse all’opera a scuola quanto al lavoro o ai fornelli. Sono il più classico dei casinisti cronici, ed è proprio per questo che posso affermare che se oggi viviamo nella dittatura dei pensierini è perché internet non è un posto adatto alle persone ordinate.

Più mi sento dire frasi come “come fai a cucinare in ‘sto casino?” o “quella scrivania sembra un campo di battaglia” e più capisco lo spaesamento che internet provoca nella gente normale: gente che cucina nell’ordine come insegnano gli chef, gente che divide tutto in faldoni etichettati, gente che alle superiori aveva un quaderno per ogni materia. Lo capisco, quello spaesamento che se non sei avvezzo al caos come me e pochi altri fortunati si trasforma inevitabilmente in pessima comprensione, populismo d’accatto e commenti a vanvera. Lo capisco perché – restando nella metafora scolastica – internet oggi assomiglia molto più al mio “quaderno di tutto” che alle cartelle zeppe di quaderni diversi pure nel colore della copertina.

Non è sempre stato così, e non che prima la rete fosse il paradiso, ma i social hanno sovvertito quell’ordine che poteva esserci quando navigare su internet significava visitare siti o blog che erano sostanzialmente tematici; avere un sito o un blog in cui si parlava di musica, ad esempio, significava interagire con qualcuno che era interessato all’argomento, e che doveva venire a cercare i tuoi articoli, come uno studente che estrae dallo zaino il quaderno di matematica per rileggere gli appunti di matematica, o un impiegato che prende un preciso faldone dallo scaffale. Poi è arrivato Twitter.

No, non Facebook. Il capostipite – e ancora oggi il maggior rappresentante – della dittatura dei pensierini è Twitter, che non a caso non si presentava come social, ma come piattaforma di microblogging. Traduzione in metafora: tutti quei post che leggevate per scelta aprendo quaderni ben divisi e ordinati, adesso vi scorrono davanti completamente a caso in un unico grande “quaderno di tutto”.

Non era ancora l’epoca in cui la paura di perdersi un trend fosse così diffusa da avere un nome clinico, ma la strada era inevitabilmente tracciata: perché visitare decine di siti tematici quando posso leggere tutti i temi su un solo sito? Certo, su Blogger leggevo articoli da 50 cartelle e su Twitter pensierini a dimensione di SMS, ma in fondo gli articoli lunghi posso sempre andarli a recuperare e i tweet posso usarli come post-it per segnarmi quel che mi interessa, che vuoi che succeda? Ecco, appunto.

Succede – ed è successo – che come per ogni post-it di questo mondo, 10 minuti dopo aver scritto l’appunto e aver incollato il bigliettino ce lo si scorda. Succede che i post-it si moltiplicano in maniera esponenziale e facciamo la fine di Jim Carrey in “Una settimana da Dio”. Succede che il contenuto dei post-it diventa l’unica cosa che leggiamo, perché il tempo di leggere le 50 cartelle chi ce l’ha, con tutti questi appunti da prendere?

Succede che chi scriveva articoli lunghi e magari complessi si ritrova senza lettori, e che scrivi a fare se non ti legge nessuno? Meglio buttarsi sui post-it. Succede che le recensioni ponderate di dischi, libri o film si trasformano in “Album terribile!”, “Libro fantastico!”, “Film imperdibile!” e altri eufemismi tanto brevi quanto dipendenti dai superlativi. Succede che le opinioni politiche articolate si trasformano in “Quel partito fa schifo!”, “Sarà meglio il tuo!”, “Sono tutti uguali!” e altre brillanti posizioni che farebbero passare Bossi per un fine statista. Succede che, di queste microbanalizzazioni, la società dei post-it non riesce più a fare a meno. Succede, parafrasando Mao, che quando la confusione è grande sotto l’hashtag la situazione è eccellente. Succede che, in questo enorme minestrone di dubbia provenienza, i pensierini imperano.

Sì, messa così sembra fin troppo tragica, ma i meme che ci scambiamo, le frasi fatte che entrano nell’uso comune, le stories da 15 secondi e i Tik Tok a scorrimento sono la regola di una rete caotica, fatta di pali e frasche in cui perdersi è più facile che cedere ai carboidrati. Si parla tanto di patenti per internet, corsi per riconoscere le fake news, educazione ai social e nessuno che dica la cosa più importante: se non sai muoverti nella confusione di argomenti e opinioni che cambiano ogni 5 minuti, forse la rete non fa per te. Và mmiezo ‘a strada, tocc ‘e femmene, va a arrubbà, fa chello che vuo’ tu, ma lascia perdere internet.

Internet non è un paese per ordinati. Se proprio volete capirci qualcosa, dimenticate lo yuppie in giacca e cravatta che fa il brillante nei video di YouTube e chiedete a quel collega un po’ strano che sembra sempre indaffarato, con mille finestre aperte sul PC e la scrivania che sembra un campo di battaglia.


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