Il bavaglio traspirante

Censura, libertà di espressione e altre amenità                

DISCLAIMER: il seguente pezzo offende volutamente il vostro desiderio di non essere contraddetti e difende la libertà degli stupidi di palesarsi, soprattutto quelli con le idee più becere e violente; è un pippone semiserio e deprimente che un bravo comico riassumerebbe in una battuta esilarante di 20 parole, ma siccome non sono Ricky Gervais o Dave Chappelle ve lo beccate così com'è.

Ho quasi 40 anni, e da che ho memoria ho sempre sentito parlare di censura, bavagli, attacchi alla libertà di espressione. Devo ammettere che per un certo periodo ci sono cascato pure io in questa retorica – siamo stati tutti adolescenti scemi, dopotutto – ma una volta raggiunta l’età della ragione ho smesso con tutte quegli atteggiamenti infantili come la socialità, gli aperitivi, la tifoseria, le religioni e la convinzione che ci sia qualcuno nel mondo a cui interessa zittire proprio me e le mie idee.

Che la censura esista e che una parte di chi detiene un qualsiasi potere senta il desiderio di oscurare le voci contrarie sono dati di fatto, ma che da noi ci sia un problema di libertà di espressione è la cosa più insensatamente diffusa dopo i poke e la macarena. È indubbio che nel mondo ci siano persone minacciate per aver svelato segreti o scoperchiato vasi di Pandora, ma gli Assange e gli Snowden sono meno degli elettori di Italia Viva, e raccontare e raccontarci che ognuno di noi ha idee così brillanti e anticonformiste che il sistema fa di tutto per metterci a tacere è una fase che dovrebbe scemare insieme alla passione per le scarpe che si illuminano, i sogni di diventare astronauta e lo zucchero filato.

Prima di proseguire devo prendermi la mia parte di colpe: sono un millennial, anche se mi fa strano dirlo, e la mia generazione è forse la più rappresentativa dell’incapacità di gestire il significato delle parole che sta alla base di questo delirio paranoide. Sarà perché nascendo negli anni ’80 abbiamo assorbito l’atteggiamento yuppie e abbiamo finito per applicarlo ad ogni aspetto della vita sociale; sarà perché le lotte per i diritti non le abbiamo vissute neanche da lontano e le conquiste sociali le diamo per scontate come l’acqua corrente e le vacanze; sarà perché non avendo una battaglia vera da combattere ce le inventiamo di sana pianta fingendo che scegliere se andare nel bagno dei cercopitechi o degli unicorni, decidere se vaccinarsi durante una pandemia o vedere i propri tratti somatici rappresentati nelle favole siano conquiste paragonabili al diritto di voto e alla sanità pubblica; sarà per queste e per altre mille ragioni, ma la mia generazione ha un grosso, enorme problema con il dizionario.

Ricordo ancora come fosse ieri la settimana in cui siamo stati “tutti Charlie”, perlomeno finché le vignette di Charlie sfottevano gli altri, e ricordo le filippiche sulla libertà di satira, la sacralità intoccabile del diritto di parola e altre amenità. Ricordo di aver letto quegli sproloqui ed aver pensato: “Quand’è che ci hanno tolto la libertà di espressione? Quanto diavolo ho dormito?”. Perché, amici miei, la libertà di espressione ce l’abbiamo, ne abbiamo a tonnellate. In occidente, e in Italia in particolare, il problema non è la mancanza di libertà di espressione, ma il mancato esercizio della libertà di espressione (grazie Giorgio Montanini per la sintesi).

Ogni giorno popoliamo i social, i blog, le bacheche dei giornali online, le assemblee comunali, i bar, e scegliamo scientemente di limitare la nostra libertà di espressione. Lo scegliamo perché non è esprimere la nostra opinione che ci interessa: non vogliamo che il mondo conosca il nostro pensiero, vogliamo che i pensieri che scegliamo di esprimere siano applauditi, che non vengano criticati, che ci facciano guadagnare follower. Il bavaglio che indossiamo, e di cui ci affrettiamo a dare la colpa alle più svariate entità, non solo ce lo mettiamo da soli, ma è talmente traspirante che non è neppure un bavaglio.

Siamo tutti vittime di questa mitomania, anche io che faccio questo discorso e tento il più possibile di rispettarlo, anche i più sapidi e scorretti autori satirici. Siamo talmente immersi nella logica tutta virtuale della bolla di comfort che ormai lo facciamo senza nemmeno rendercene conto, ogni volta che cancelliamo un tweet prima di pubblicarlo, ogni volta che stiamo zitti di fronte a qualcosa che ci infastidisce, e mentre scegliamo di autocensurarci ci diamo le più svariate giustificazioni, dal più classico “non avevo voglia di palle” al più snobistico “tanto non avrebbero capito”, fino al definitivo “non si può più dire niente”.

Ecco, smettiamola. Oggi si può dire tutto, anche di più. Quello che non si può – e non si è mai potuto – fare è pretendere di dirlo senza conseguenze, di dirlo senza che nessuno osi mettere becco sulle nostre opinioni, di dirlo senza che la mamma ci metta in castigo. È inutile credersi dei Giordano Bruno quando invece si è soltanto delle Ferragni che dicono a sé stesse “non farti giudicare da nessuno” convinte che non ascoltare le critiche sia un coraggioso gesto di empowerment e non la scappatoia di un infante frignone.

Si può dire tutto, e lo facciamo aspettando la critica di cui frignare, il commento sguaiato del tonto di turno da sfottere, l’intervento dell’algoritmo da accusare di censura; tutto rigorosamente in funzione di un ego alimentato da like, condivisioni e dichiarazioni di solidarietà da parte dei “nostri”. Allo stesso modo, però, vorremmo limitare la libertà di espressione di chi la pensa diversamente da noi, e basta osservare la frequenza con cui la gente chiede la testa dei giornalisti per un articolo che non ha gradito, o la quantità di “perché tizio non viene bannato e io sì?” per rendersene conto. Più tiriamo in ballo la libertà di espressione e più somigliamo al bambino che portava il pallone ai giardinetti solo per decidere le squadre.

Il problema è che la libertà di espressione o è per tutti o non è. Ogni volta che si nega la legittimità di un pensiero, anche il più becero e incivile, anche se lo si fa con le più nobili intenzioni, si sta negando la libertà di espressione di qualcuno e legittimando quel qualcuno a fare lo stesso con i nostri, di pensieri.

Prima che corriate su Google a recuperare Karl Popper in versione fumetto o citazioni di Matteotti che non sapete inquadrare, vorrei ricordarvi che disprezzare qualcuno e caricarlo sui vagoni piombati sono cose estremamente diverse, e tra l’avere un pensiero e l’agire sugli altri in funzione di quel pensiero c’è la stessa distanza che c’è tra la vostra difesa teorica di Charlie per la vignetta su Maometto e la vostra indignazione pratica per la vignetta di Charlie sul terremoto nelle Marche.

Permettere a tutti di esternare i propri pensieri, in particolare quelli che consideriamo sbagliati, è l’unico modo per rispettare la libertà di espressione, e soprattutto per mettere a nudo le idee più aberranti e smentirle pubblicamente come in un giusto processo. Chi si ostinerà a crederci in barba a qualsiasi argomentazione sensata esisterà comunque, è impossibile impedirglielo e ci sono 5000 anni di religioni monoteiste a dimostrarlo, ma nessuno potrà insinuare il dubbio di aver ragione ed essere stato zittito da chi vuole tenere la gente all’oscuro.

È un esercizio difficile, lo so, ci vogliono impegno e dedizione per riconoscere le libertà degli altri, è faticoso dimostrare ogni volta ciò che sarebbe comodo considerare un dogma. È molto più facile circondarsi di gente che la pensa come noi, bloccare o silenziare le opinioni avverse, crearci una bolla confortevole in cui leggiamo tutti gli stessi libri, guardiamo le stesse serie TV, sfottiamo tutti gli stessi politici, ci facciamo le seghe a vicenda e riduciamo al minimo il dibattito interno adagiandoci nella bambagia dei giusti.

Certo, potrebbe capitare che un giorno, in un momento di lucidità, ci si trovi in disaccordo con la propria bolla, potrebbe capitare di sentire la voglia di esternare una propria convinzione molto impopolare nella cerchia, addirittura di criticare uno dei guru della bolla, ma dopo tutto quel lavoro di cesello per costruirsi un mondo virtuale che ci applaude, chi ce lo fa fare di mettere a repentaglio quei 10/100/1000/X milioni di follower che ci siamo guadagnati col sudore degli hashtag? Meglio cancellare il tweet. Meglio reprimere.

Che te ne fai del libero pensiero se non ti procura dopamina?


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